Il direttore di “Repubblica”, Carlo Verdelli, per quel che mi è dato sapere di lui, è un galantuomo, non solo un professionista di tutto rispetto. In questo mio scrivere c’è senz’altro un conflitto di interesse: ricordo un suo articolo del 2 maggio 2013, su “Repubblica”, sulla vicenda che ha visto protagonista- vittima Enzo Tortora. Non l’ho mai ringraziato per quell’articolo. Uno dei pochi onesti che mi è accaduto di leggere. La citazione naturalmente fa piacere, ma non è solo per questo. Titolo: “Il martirio di Tortora, il più grande esempio di macelleria giudiziaria, per cui nessuno ha pagato”.

Comincia così: “Qualsiasi cosa ci sia dopo, il niente o Dio, è molto probabile che Enzo Tortora non riposi in pace. La vicenda che l'ha spezzato in due, anche se ormai lontana, non lascia in pace neanche la nostra di coscienza. E non solo per l'enormità del sopruso ai danni di un uomo ( che fosse famoso, conta parecchio ma importa pochissimo), arrestato e condannato senza prove come spacciatore e sodale di Cutolo. La cosa che rende impossibile archiviare «il più grande esempio di macelleria giudiziaria all'ingrosso del nostro Paese» ( Giorgio Bocca) è il fatto che nessuno abbia pagato per quel che è successo. Anzi, i giudici coinvolti hanno fatto un'ottima carriera e i pentiti, i falsi pentiti, si sono garantiti una serena vecchiaia, e uno di loro, il primo untore, persino il premio della libertà. Non fosse stato per i radicali ( da Pannella al neo ministro Bonino, da Giuseppe Rippa a Valter Vecellio) che lo elessero simbolo della giustizia ingiusta e lo fecero eleggere a Strasburgo.

Non fosse stato per Enzo Biagi che proprio su “Repubblica”, a sette giorni da un arresto che, dopo gli stupori, stava conquistando travolgenti favori nell'opinione pubblica, entrò duro sui frettolosi censori della prima ora ( da Giovanni Arpino, «tempi durissimi per gli strappalacrime», a Camilla Cederna, «se uno viene preso in piena notte, qualcosa avrà fatto» ) con un editoriale controcorrente: E se Tortora fosse innocente?.

«Non fosse stato per l'amore e la fiducia incrollabile delle figlie (tre) e delle compagne ( da Pasqualina a Miranda, prima e seconda moglie, fino a Francesca, la convivente di quell'ultimo periodo). Non fosse stato per i suoi avvocati, Raffaele Della Valle e il professor Alberto Dall'Ora, che si batterono per lui con una vicinanza e un ardore ben al di là del dovere professionale. Non fosse stato per persone come queste, i 1.768 giorni che separano l'inizio del calvario di Enzo Tortora ( 17 giugno 1983, prelevato alle 4 del mattino all'Hotel Plaza di Roma) dalla fine della sua esistenza ( 18 maggio 1988, cancro ai polmoni, nella sua casa milanese di via Piatti 8, tre camere più servizi), sarebbero stati di meno, nel senso che avrebbe ceduto prima».

Il resto dell’articolo lo si può rintracciare in internet. Qui mi limito a dire che è una puntuale, accurata, documentata ricostruzione dell’accaduto; della barbarie che si è consumata. Dell’atroce e terrificante vicenda che costituisce una delle pagine più vergognose e basse della giustizia italiana.

Non ho mai ringraziato Verdelli per quella citazione, per quel riconoscimento che – fatto da lui – mi è più caro di un premio giornalistico.

Per questo sono saltato letteralmente dalla sedia, nel leggere, su “Repubblica” un articolo su Gianni Melluso che forse si giustifica solo con la giovane età di chi l’ha scritto, e la sua non conoscenza dei fatti. Come si fa, infatti, a scrivere: “… Quando Melluso iniziò a parlare con i magistrati, Tortora era già stato inchiodato da altri due accusatori: i boss Giovanni Pandico e Pasquale Barra detto ‘ o animale’…”, e non aggiungere che i due accusatori “inchiodarono” Tortora con accuse false, si rivelarono “pentiti” di nessun pentimento e collaborazione? Che Pandico e Barra erano “solo” mascalzoni a cui dei magistrati prestarono fede senza fare alcun riscontro, fecero tutti “carriera”?