Tra reddito di cittadinanza e crescita zero: nuovo giro per la roulette dei conti pubblici
Nel giorno in cui parte la misura cara al M5s, l’Ocse prevede il segno meno per il pil dell’Italia nel 2019. Manovra correttiva e finanziaria: stress test complicati
Coincidenze. Nel giorno in cui – senza affollamenti ai Caf e piuttosto in sordina, raccontano le cronache – parte il reddito di cittadinanza ( non interessa? non è stato capito? i “fannulloni” sono assai meno di quanto si vuol far credere?), l’Ocse spiattella una verità che tanti conoscono e pochi vogliono ammettere. In tutto il 2019 l’Italia, felicemente o meno, decrescerà: il Pil segnerà un meno 0,2 per cento; peggio di noi solo la Turchia e la lontana Argentina al cui pensiero di default vengono i brividi. Ovviamente si tratta di previsioni, perché come ricorda Carlo Cottarelli l’economia non è una scienza esatta.
Perciò senz’altro ci sarà chi balzerà su, pronto a ricordare che gli indicatori non c’azzeccano mai, che il secondo semestre segnerà un’inversione di tendenza, che l’anno in corso se non proprio meraviglioso alla fine risulterà molto meno peggio di quel che tanti si ostinano a dipingere. Altrettanto ovviamente minimizzare o sottovalutare gli allarmi che piovono alla stregua di poderosi chicchi di grandine un po’ da ogni parte riguardo le fragilità, le incertezze, i pericoli che corrono i nostri conti pubblici è esercizio da struzzi: niente paura e testa sotto la sabbia; dopo le elezioni europee «cambierà tutto». In che direzione, nessuno lo sa.
Secondo l’Ocse, quel segno meno significa che né quota 100 né il reddito di cittadinanza avranno effetti espansivi. Non stimoleranno la crescita, non favoriranno lo sviluppo, non daranno una sferzata ai consumi. Presumibilmente neanche indurranno impennate dell’occupazione. Se ci aggiungiamo che la prossima manovra di Bilancio parte anch’essa con un segno meno: – 23 miliardi da recuperare per impedire che scattino le clausole di salvaguardia che significano aumento dell’Iva con impatto depressivo sui consumi, si comprende perché dopo tante negazioni Matteo Salvini si sia lasciato sfuggire che forse in primavera una manovra correttiva ci sarà, anche se «certamente non conterrà aumenti fiscali».
Fatto sta che entro il 10 aprile, cioè tra poco più di un mese e ben lontano da fine maggio quando si voterà per le Europee, il governo deve presentare il Documento di economia e finanza ( Def) che contiene l’intelaiatura della prossima legge di Bilancio 2019- 2020. Più che numeri ci saranno indicazioni, è vero: però vincolanti. Risulta complicato immaginare che le stime al ribasso verranno ignorate.
Diventa complicatissimo prevedere che le previsioni di crescita fin qui elargite dal ministro Tria e dall’intero governo verranno confermate. In realtà se l’Italia, indipendentemente dalle cifre assolute, passa dal segno più al segno meno è l’intera impalcatura della legge di Bilancio in corso a dover essere rivista. E non con qualche ritocchino bensì con misure incisive che minacciano di essere impopolari e ben lontane dalle suggestioni positive che l’esecutivo sparge con invidiabile – e si desume fondata tranquillità.
Ma il Def è solo la cima dell’iceberg. Il complesso delle valutazioni sui conti pubblici più che la sostenibilità del debito ( che è sicura) o i rischi di recessione ( idem) sconta l’incertezza politica. L’agenzia di rating Ficht l’ha messo nero su bianco; altri si limitano a paventarle: il pericolo che avvertono i mercati è che il fragile equilibrio dell’alleanza gialloverde non regga allo stress test dell’azione di governo e che quindi il Paese precipiti in elezioni politiche anticipate in un quadro di confusione e con aree di incertezza che si allargano a macchia d’olio. E’ in questo scenario che potrebbe formarsi un vortice speculativo tale da provocare l’impennata dello spread e l’aggravio oltremisura del peso degli interessi sui titoli pubblici.
Non solo. Ancora più inquietanti agli occhi delle corbeilles mondiali appaiono gli scenari di focolai di infezione che le criticità italiane potrebbero innescare in tutta Europa e non solo. Vale sempre, giusto ricordarlo, il concetto per cui l’Italia è too big to fail, troppo grande per fallire. Solo che, per così dire, ha subito anch’esso un downgrading che lo rende meno granitico di prima. Giusto toccare ferro: l’Italia ha risorse considerevoli. Sbagliato fare spallucce: alla fine il conto lo paghiamo tutti.
Tra reddito di cittadinanza e crescita zero: nuovo giro per la roulette dei conti pubblici
Coincidenze. Nel giorno in cui – senza affollamenti ai Caf e piuttosto in sordina, raccontano le cronache – parte il reddito di cittadinanza ( non interessa? non è stato capito? i “fannulloni” sono assai meno di quanto si vuol far credere?), l’Ocse spiattella una verità che tanti conoscono e pochi vogliono ammettere. In tutto il 2019 l’Italia, felicemente o meno, decrescerà: il Pil segnerà un meno 0,2 per cento; peggio di noi solo la Turchia e la lontana Argentina al cui pensiero di default vengono i brividi. Ovviamente si tratta di previsioni, perché come ricorda Carlo Cottarelli l’economia non è una scienza esatta.
Perciò senz’altro ci sarà chi balzerà su, pronto a ricordare che gli indicatori non c’azzeccano mai, che il secondo semestre segnerà un’inversione di tendenza, che l’anno in corso se non proprio meraviglioso alla fine risulterà molto meno peggio di quel che tanti si ostinano a dipingere. Altrettanto ovviamente minimizzare o sottovalutare gli allarmi che piovono alla stregua di poderosi chicchi di grandine un po’ da ogni parte riguardo le fragilità, le incertezze, i pericoli che corrono i nostri conti pubblici è esercizio da struzzi: niente paura e testa sotto la sabbia; dopo le elezioni europee «cambierà tutto». In che direzione, nessuno lo sa.
Secondo l’Ocse, quel segno meno significa che né quota 100 né il reddito di cittadinanza avranno effetti espansivi. Non stimoleranno la crescita, non favoriranno lo sviluppo, non daranno una sferzata ai consumi. Presumibilmente neanche indurranno impennate dell’occupazione. Se ci aggiungiamo che la prossima manovra di Bilancio parte anch’essa con un segno meno: – 23 miliardi da recuperare per impedire che scattino le clausole di salvaguardia che significano aumento dell’Iva con impatto depressivo sui consumi, si comprende perché dopo tante negazioni Matteo Salvini si sia lasciato sfuggire che forse in primavera una manovra correttiva ci sarà, anche se «certamente non conterrà aumenti fiscali».
Fatto sta che entro il 10 aprile, cioè tra poco più di un mese e ben lontano da fine maggio quando si voterà per le Europee, il governo deve presentare il Documento di economia e finanza ( Def) che contiene l’intelaiatura della prossima legge di Bilancio 2019- 2020. Più che numeri ci saranno indicazioni, è vero: però vincolanti. Risulta complicato immaginare che le stime al ribasso verranno ignorate.
Diventa complicatissimo prevedere che le previsioni di crescita fin qui elargite dal ministro Tria e dall’intero governo verranno confermate. In realtà se l’Italia, indipendentemente dalle cifre assolute, passa dal segno più al segno meno è l’intera impalcatura della legge di Bilancio in corso a dover essere rivista. E non con qualche ritocchino bensì con misure incisive che minacciano di essere impopolari e ben lontane dalle suggestioni positive che l’esecutivo sparge con invidiabile – e si desume fondata tranquillità.
Ma il Def è solo la cima dell’iceberg. Il complesso delle valutazioni sui conti pubblici più che la sostenibilità del debito ( che è sicura) o i rischi di recessione ( idem) sconta l’incertezza politica. L’agenzia di rating Ficht l’ha messo nero su bianco; altri si limitano a paventarle: il pericolo che avvertono i mercati è che il fragile equilibrio dell’alleanza gialloverde non regga allo stress test dell’azione di governo e che quindi il Paese precipiti in elezioni politiche anticipate in un quadro di confusione e con aree di incertezza che si allargano a macchia d’olio. E’ in questo scenario che potrebbe formarsi un vortice speculativo tale da provocare l’impennata dello spread e l’aggravio oltremisura del peso degli interessi sui titoli pubblici.
Non solo. Ancora più inquietanti agli occhi delle corbeilles mondiali appaiono gli scenari di focolai di infezione che le criticità italiane potrebbero innescare in tutta Europa e non solo. Vale sempre, giusto ricordarlo, il concetto per cui l’Italia è too big to fail, troppo grande per fallire. Solo che, per così dire, ha subito anch’esso un downgrading che lo rende meno granitico di prima. Giusto toccare ferro: l’Italia ha risorse considerevoli. Sbagliato fare spallucce: alla fine il conto lo paghiamo tutti.
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