Il Parlamento europeo esaminerà la petizione italiana sul mancato risarcimento per ingiusta detenzione. Parliamo della petizione di Giulio Petrilli che rivendica, dopo sei anni di ingiusta detenzione, un risarcimento dallo Stato.

«A nome del segretario generale del Parlamento europeo», fa sapere Petrilli «mi è arrivata la risposta alla mia petizione, a cui l'Europa risponderà con certezza». Ricorda che «si tratta della raccolta di firme avviata a dicembre scorso, sulla richiesta di modifica della norma dell'ordinamento italiano che limita il diritto al risarcimento per ingiusta detenzione». Aggiunge: «Sono fiducioso della risposta della Commissione petizioni del Parlamento europeo che, nel caso fosse positiva, riaprirebbe la mia vicenda, come quella di tanti altri che non hanno avuto il risarcimento per ingiusta detenzione nonostante assolti. Una norma palesemente anticostituzionale che, spero e penso, venga evidenziata dal Parlamento europeo, dove mi sono recato anche nell'ottobre scorso per denunciare quanto accaduto. Una battaglia che conduco da tanti anni, anche con l'appoggio e la solidarietà di tante persone, ma che si è sempre arenata nella non disponibilità, da parte del Parlamento italiano, a modificare la normativa che vieta il risarcimento per ingiusta detenzione per un giudizio morale sull'imputato».

La vicenda di Giulio Petrilli è emblematica. A 58 anni Giulio Petrilli abbandona l'Italia per andare a lavorare in Serbia, a Belgrado. Giulio viene arrestato il 23 dicembre 1980 con l'accusa di partecipazione a banda armata per un suo presunto coinvolgimento nell'organizzazione Prima Linea. Dopo quasi sei anni di carcerazione preventiva, viene però dichiarato innocente. La sua non è soltanto una delle tante, troppe storie di malagiustizia, ma va anche inquadrata in quel cupo periodo emergenziale, in cui in nome della lotta al terrorismo si sacrificavano molto spesso le garanzie costituzionali. Era facile che finisse in prigione chiunque appartenesse a qualche formazione extraparlamentare. All’interno delle carceri – come poi emerse dopo anni – si praticavano anche delle torture per poter estorcere informazioni. Ma già da allora, grazie ad un “Comitato contro la tortura” promosso dal Partito Radicale, un dossier del 1982 aveva documentato una sessantina di episodi di torture e pestaggi avvenuti contro militanti della lotta armata. All'epoca furono in pochi tra i politici a denunciarne gli abusi. I due grandi partiti di massa, la Democrazia cristiana e il partito Comunista, rimasero silenti. In parlamento solo Leonardo Sciascia, eletto tra le fila del Partito Radicale, prese la parola e denunciò la situazione con parole tremendamente attuali: «In Italia basta che si cerchi la verità perché si venga accusati di convergere col terrorismo nero, rosso, con la mafia, con la P2 o con qualsiasi altra cosa! Come cittadino e come scrittore posso anche subire una simile accusa, ma come deputato non l'accetto. Non si converge assolutamente con il terrorismo quando si agita il problema della tortura. Questo problema è stato rovesciato sulla carta stampata: noi doverosamente lo abbiamo recepito qui dentro, lo agitiamo e lo agiteremo ancora!».

È questo il contesto, sociale e politico, che fece da sfondo all'arresto di Giulio Petrilli. L'accusa è pesantissima: partecipazione a banda armata con funzioni organizzative. L'allora procuratore Armando Spataro, che emise il mandato di cattura, sosteneva che Petrilli fosse coinvolto nell'organizzazione terroristica Prima Linea e chiese una condanna a undici anni. A quei tempi Giulio era uno studente universitario di ventuno anni, iscritto alla facoltà di Lettere a L'Aquila. Un ragazzo pieno di ideali e voglia di cambiare il mondo: sogni che si infrangono contro la condanna in primo grado a otto anni di reclusione. Condanna che inizia a scontare, passando da un carcere all'altro in un regime detentivo peggiore dell'attuale 41- bis: quello regolato allora dall'articolo 90, che prevedeva l'isolamento totale. In appello Giulio fu assolto e nel maggio dell' 86 tornò definitivamente libero con la sentenza di assoluzione confermata dalla Cassazione. Nonostante l’ingiusta detenzione, Petrilli non è mai stato risarcito. Anzi, la domanda di risarcimento è stata respinta per ben due volte. La prima volta perché la sentenza di assoluzione è arrivata prima della riforma del codice di procedura penale, che nel 1989 ha introdotto la riparazione per ingiusta detenzione, senza però prevedere la retroattività. La seconda bocciatura ha dell'incredibile: i magistrati, oltre a negargli il risarcimento, lo condannarono anche a pagare le spese processuali. Motivazione? Gli dissero che con le sue frequentazioni aveva tratto in inganno gli inquirenti.