Due grandi magistrati. Due protagonisti della lotta al crimine. Da Palermo e Reggio Calabria fino alla Capitale. Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino, il primo capo della Procura di Roma, il secondo procuratore aggiunto nello stesso ufficio e alla guida della Dda. Una storia comune che si condensa ora in uno dei più importanti volumi mai usciti nel nostro Paese sulla criminalità organizzata: Modelli Criminali. Mafie di ieri e di oggi, edito da Laterza e in libreria da stamattina, a firma dei due inquirenti.

Una lezione che Pignatone lascia, insieme con il suo “vice”, a poche settimane dal congedo dalla magistratura: raggiungerà la soglia dei 70 anni l’ 8 maggio. Ma Modelli criminali è anche un testo destinato a far discutere a proposito di Mafia capitale. Perché affronta le vicende confluite nella grande indagine romana e giunte alle condanne in appello per associazione di tipo mafioso.

E perché lascia appena velato da un’ombra di incertezza uno degli aspetti ontologici di quell’indagine, che in fondo precede e avvolge le stesse condanne a Salvatore Buzzi, Massimo Carminati e ai loro sodali: ma quella del mondo di mezzo è davvero “mafia”?

Non si tratta solo di accertamento processuale, ma di una riflessione appunto filosofica sulla natura profonda del reato previsto all’articolo 416 bis del Codice penale. Riflessione che porta ancora oltre, oltre la sociologia, e incrocia il processo mediatico. Perché non è detto che il punto sia solo nella corrispondenza, per i reati ascritti a Buzzi e Carminati, con l’associazione di tipo mafioso. Su tale congruità deve ancora pronunciarsi la Cassazione, a cui hanno fatto ricorso gli imputati di Mafia Capitale dopo le condanne inflitte nel processo “maxi” dalla Corte d’appello di Roma ( per 18 anni e 4 mesi nel caso di Buzzi e 14 anni e 6 mesi per Carminati, sempre per citare i due “vertici”). Ma persino se la Suprema corte confermasse la sussistenza del metodo mafioso e del 416 bis, resterebbe un fortissimo dubbio sul fatto che quel tipo di “associazione” sia effettivamente “mafia”. E sì, perché è lo stesso 416 bis a lasciare aperto un sottile ma chiaro margine di distinzione: ci sono associazioni punibili esattamente con le stesse pene, perché praticano lo stesso ricorso alla «forza intimidatrice» del vincolo associativo al fine di perseguire gli «scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso», ma che sul piano criminologico non sono appunto né «mafia» né «camorra» o «’ ndrangheta», esplicitamente citate all’ultimo comma del 416 bis. Sono associazioni criminali, punibili con le stesse severe condanne, ma per il codice non sono necessariamente “mafiose”.

Un fatto che con correttezza e rigore gli stessi Pignatone e Prestipino riconoscono. Lo fanno in quello che pare il capitolo chiave del loro libro, intitolato “C’è la mafia a Roma?”, quando citano proprio quell’ultimo comma ( l’ottavo): è la norma che, ricordano, consente di applicare l’articolo 416 bis «fin dalla sua stesura originaria, “anche alle altre associazioni, comunque localmente denominate”» . Consorzi criminali che appunto come detto perseguono obiettivi analoghi a quelli della «mafia». Nel rigo successivo Pignatone e Prestipino scrivono: « È evidente che la quasi totalità dei processi per mafia ( rectius per il reato di cui all’art. 416 bis c. p.) in questi trentatasei anni ha avuto per oggetto le mafie tradizionali...» . Quel rectius, cioè “più correttamente”, sta a significare che sarebbe più esatto non parlare di «mafia» per organizzazioni come quella di Buzzi e Carminati, ma limitarsi a dire che funzionano con meccanismo analogo a quello della mafia. Non cambierebbe nulla? Forse qualcosa cambia. C’è da chiedersi se il destino di quell’indagine e di quei processi sarebbe stato analogo, nel caso in cui i media non avessero spiattellato sempre e comunque l’espressione «mafia» per descrivere il “Mondo di mezzo”. E se una simile sfumatura non possa aver pur impercettibilmente orientato la lettura dei fatti, per esempio, da parte di quella Corte d’Appello che ha riscontrato il 416 bis negato dal Tribunale. In tempi in cui il riflesso mediatico della giustizia le ritorna addosso come l’effetto di una deflagrazione, non è aspetto irrilevante. I giudici – Cassazione compresa – ragionano sul 416 bis, non su parole e suggestioni. Ma sono anche assediati da un contesto che fa l’esatto contrario.