«Seguite i soldi e troverete la mafia», sosteneva Giovanni Falcone. Parole che invitavano le istituzioni a cambiare approccio nella lotta a Cosa nostra. È quello che in pratica ha fatto Giuseppe Antoci, quando è diventato presidente del Parco dei Nebrodi nel 2013. Dopo pochi mesi capisce che tutti quei terreni che fanno parte della più grande area protetta della Sicilia, a cavallo tra Messina, Catania ed Enna, apparentemente abbandonati, rappresentavano un vero e proprio business per la mafia. Un giro d'affari che si aggirerebbe nell’Isola in circa tre miliardi di euro potenziali negli ultimi 10 anni. Il presidente elabora un protocollo di legalità che sarà subito battezzato il “protocollo Antoci”, adottato dalla Regione siciliana a marzo del 2015 e diventata legge dello Stato a settembre 2017.

L'intuizione di Giuseppe Antoci arriva dopo qualche mese dalla sua nomina e in seguito ad alcuni incontri con uno dei sindaci dei comuni appartenenti al Parco, il primo cittadino di Troina, Fabio Venezia. Ma è in base a questa stessa intuizione che Antoci finirà da subito nel mirino delle cosche interessate a quei terreni, ma soprattutto ai soldi dei contributi Ue che affluivano lecitamente nelle loro casse.

“La mafia dei pascoli” ( Rubettino editore) è il titolo del libro scritto da Nuccio Anselmo con Giuseppe Antoci, presentato a Roma insieme al capo della Polizia, il prefetto Franco Gabrielli, e al Procuratore nazionale Antimafia, Federico Cafiero de Raho. Alla serata, moderata da Andrea Montanari della Rai e voluta dalla Regione Lazio e da Rubbettino Editore, hanno partecipato anche Tina Montinaro e il figlio Giovanni. All’iniziativa hanno partecipato il vice presidente del Consiglio superiore della magistratura David Ermini, il sottosegretario agli Interni Luigi Gaetti e il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano.

«È stato difficile raccontare a Nuccio Anselmo un pezzo di vita, un pezzo di paure, di sentimenti, ma anche di grandi soddisfazioni - ha spiegato Antoci -. Sono stati anni importanti e la mafia questa partita l’ha persa e questo va detto e bisogna far capire che quando si fa squadra insieme, creando strumenti normativi che mettono le mani nelle tasche, le mafie reagiscono e hanno provato a fermarci ma noi abbiamo reagito a nostra volta. Ed abbiamo reagito facendo solo il nostro dovere perché questo terra non ha bisogno di eroi, di simboli, ma di gente che fa il proprio dovere».

Sia il capo della Polizia che il procuratore nazionale antimafia hanno sottolineato l’importanza della figura di Antoci e il ruolo della scorta. Federico Cafiero de Raho ha ribadito l’impegno per la cattura di Matteo Messina Denaro: «Stiamo tagliando ogni giorno di più la rete e le risorse che lo coprono. Arriveremo quindi per forza a lui e credo anche che non passerà molto tempo. Perché non è stato ancora preso? Semplicemente perché gode di una copertura, ma grazie allo straordinario lavoro delle forze dell’ordine questa copertura si sta affievolendo sempre di più».

Gabrielli ha spiegato che «ci sono forme criminali che hanno la capacità di non essere sotto le luci della ribalta pur essendo dirompenti», come appunto la mafia dei pascoli. Il prefetto ha poi ricordato che alcuni avevano avanzato dei dubbi sulla veridicità dell’attentato ad Antoci, ma «quando abbiamo ricostruito la scena del crimine tramite il nostro teatro virtuale, unico in Europa, è emersa una verità: ovvero che non c’era nessuna ricostruzione fatta ad arte. Niente di finto. E così si è potuto ridare credibilità a quella pagina».

“La mafia dei pascoli” è soprattutto una lunga intervista che Nuccio Anselmo, giornalista della Gazzetta del Sud, ha fatto all'ex presidente del Parco dei Nebrodi, ma anche una documentata storia degli omicidi e dei processi della mafia messinese che, da cronista di giudiziaria, Anselmo segue quotidianamente. Il colloquio con Antoci, parola dopo parola, restituisce il clima, la tensione e i personaggi di una vicenda che è culminata la notte del 17 e 18 maggio 2016. Il racconto dell'agguato è drammatico. Antoci aveva incontrato il sindaco di Cesarò e il vice questore Daniele Manganaro. «Mi avviai con la scorta in macchina – dice Antoci nel colloquio con Anselmo – e partii da Cesarò verso casa». «Dopo che era passata circa una mezz'ora sentii qualcosa mentre ero assopito sul sedile posteriore; sentii solamente i ragazzi della scorta che dicevano: “Ma cosa sono queste pietre?” ( le due corsie erano invase dai massi, nda.). Il tempo di finire la frase e cominciai a sentire rumori fortissimi, come violentissimi colpi di pietra contro la macchina. Quindi mi svegliai di colpo, mi resi conto che invece erano colpi d'arma da fuoco, che poi scoprii essere fucilate». Antoci continua: «La prima cosa che fece il mio capo scorta, Salvatore Santostefano, fu quella di girarsi verso di me, prendermi per la testa e letteralmente scaraventarmi sotto i sedili, e lui si mise sopra di me. A un certo punto si sentì un rumore, si sentì arrivare una macchina, tutti pensammo fosse un'altra auto che partecipava all'agguato, poi sentì ancora sparare. Gli attentatori infatti spararono anche contro Manganaro che era intanto arrivato sul posto, raggiungendoci grazie al fatto che noi con l'auto blindata andavamo più lentamente. E arrivò trovando questi con i fucili imbracciati che assaltavano la nostra auto. Fu il finimondo».

Antoci chiarisce che l'obiettivo del commando era quello di «fermare l'auto perché sapevano che era blindata, volevano fermarla e poi darle fuoco, infatti sono state ritrovate alcune bottiglie molotov». L'arrivo della macchina del vicequestore Manganaro e dei suoi uomini fece saltare quel piano. «Questo è stato considerato uno degli attentati più efferati e tecnicamente meglio studiati dopo le stragi del ' 92, poiché non avremmo avuto scampo... non avremmo avuto scampo...», ricorda Antoci. E aggiunge ad Anselmo: «... sono stati attimi terribili... ricorderò per sempre i volti impauriti dei ragazzi della scorta, di Manganaro, quegli sguardi me li porterò dentro per tutta la vita, quelle grida... quei pianti, è una cosa che non dimenticherò più. Come non dimenticherò più il mio primo pensiero... il mio primo pensiero... la famiglia, le mie figlie...».

Già la famiglia che per Antoci è stata sempre fondamentale nelle sue scelte. La figlia più grande mesi prima, quando aveva riunito la famiglia per metterla al corrente del clima difficile, gli aveva detto: «Papà non devi fermarti, lo devi fare per me, per le mie sorelle, lo devi fare per questa terra, tanto ci siamo noi con te». E lui lo ha fatto.

La notte tra il 17 e il 18 maggio 2016 quel commando mafioso voleva fermarlo per sempre. Antoci sarebbe diventato un eroe perché, sempre citando Falcone, «questo è un Paese in cui per essere credibili bisogna morire ammazzati». Per fortuna questa volta la mafia ha fallito e Antoci è testimone della vittoria contro il malaffare. «Questa – dice - è una terra che non ha bisogno di simboli ed eroi, ha solo bisogno di normalità. Fare il proprio dovere deve essere normale».