Il diretto interessato non vuol sentir parlare di giorno della verità, eppure - anche se il timer potrebbe essere spostato avanti di qualche settimane - il conto alla rovescia del governo sembra ormai ticchettare. E le bombe ad orologeria sono almeno due.

La prima a detonare è il Caso Diciotti: Matteo Salvini ostenta sicurezza parlando d’altro sui suoi social, Luigi Di Maio ribadisce tranquillità in conferenza stampa alla Camera. Eppure la decisione della Giunta per le immunità del Senato pesa come una spada di Damocle sull’esecutivo. La Lega è ovviamente decisa a votare no alla richiesta dei magistrati e Salvini pretende lo stesso dagli alleati di governo: “La decisione è stata collegiale, ho agito per il bene del Paese”, continua a ripetere il ministro, che ieri ha depositato la propria memoria difensiva ( che dovrebbe contenere in allegato anche la testimonianza scritta che il governo si assume la responsabilità sulla vicenda). Il Movimento 5 Stelle, invece, è lacerato al suo interno in modo profondo. Il dogma grillino impone di rifiutare qualsiasi tipo di immunità, ma «è chiaro che questo è un caso specifico», ha detto Di Maio. Sarà anche chiaro, ma i senatori in Giunta non sono tutti dello stesso avviso. Il dilemma è insolubile: votare contro l’immunità a Salvini significa aprire la crisi di governo; concedergliela in virtù della ragion di stato sarebbe un tradimento agli ideali del Movimento, attesterebbe la primazia dell’alleato leghista e aprirebbe comunque la strada a una potenziale rottura. Di qui l’impasse, che dovrà però necessariamente risolversi - in un senso o nell’altro - entro il 22 febbraio.

La seconda bomba, invece, si chiama Tav. La tensione nel nord roccaforte leghista sta salendo, le piazze piemontesi sono infiammate, la Francia preme al confine, l’Europa avverte che è pronta a far pagare pegno e tutto il mondo economico del paese reclama il completamento dell’opera. Invece, lo ieratico ministro grillino Danilo Toninelli ripete un solo mantra: analisi costi- benefici. Il documento è finalmente pronto ed è stato inviato alla Francia e proprio questo scambio di carte ha mandato su tutte le furie Salvini. È «abbastanza bizzarro» che l’analisi costi- benefici sia stata inviata prima a Parigi che a Roma, ha sbottato: «Perchè dei numeri che riguardano il futuro degli italiani sono conosciuti prima a Parigi che a Roma? Io non cambio idea, l’Italia sulle grandi opere pubbliche deve andare avanti, non bloccare e tornare indietro». Peccato che nemmeno i grillini sembrino intenzionati a cedere su quello che è diventato un totem del Movimento, complice anche l’irruenza mediatica di Alessandro Di Battista.

Intanto, a soffiare sul collo dell’Italia si aggiungono ancora l’Unione Europea e il Fondo Monetario Internazionale. Manca l’ufficialità, ma la Commissione Ue è pronta a falcidiare le stime di crescita italiane: dall’ 1,2% di previsione sul Pil a novembre, allo 0,2% previsto per il 2019. Il Fmi, invece, boccia senza appello il reddito di cittadinanza presentato in stile Silicon Valley dai 5 Stelle: «I benefici sono relativamente più generosi al Sud, dove il costo della vita è più basso con l'implicazione di maggiori disincentivi al lavoro così come di rischi di dipendenza dalla misura di welfare». Previsioni infauste, che smentiscono il futuro «bellissimo» magnificato dal premier Giuseppe Conte.

La stangata non contribuisce a rasserenare il clima di burrasca che ormai nemmeno il placido timoniere di Palazzo Chigi riesce a calmare. I rapporti personali dei due vicepremier sono ridotti al minimo storico e i nodi stanno venendo al pettine: nè sul caso Diciotti nè sul Tav sono possibili scelte interlocutorie, servono un sì o un no. Il guaio è che, per garantire la vita del governo, non esiste una risposta giusta.