Guido Rossa muore a Genova alle 6 e 35 del mattino del 24 gennaio 1979, falcidiato da quattro pallottole davanti a casa: tre alle gambe e una, quella fatale, al cuore. A ucciderlo è un commando della colonna genovese delle Brigate Rosse: il capo, Riccardo Dura, insieme a Vincenzo Guagliardo e Lorenzo Carpi lo attende fuori casa, a bordo di un furgone Fiat 238. Dura, poi, verrà ucciso in uno scontro a fuoco dagli uomini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nel covo di via Fracchia, a pochi metri da dove uccise Rossa. Gli altri due terroristi, arrestati, raccontano che l’obiettivo era solo gambizzare il sindacalista, ma Dura - dopo i colpi alle gambe che avevano lasciato Rossa a terra - tornò indietro per finirlo con un colpo al cuore, perché «le spie vanno uccise». A far pronunciare la sentenza di morte il fatto che Guido Rossa, comunista e sindacalista Cgil, aveva denunciato e fatto arrestare l’operaio Francesco Berardi, brigatista non ancora entrato in clandestinità, che distribuiva volantini delle Br alla macchinetta del caffè dell’Italsider. Rossa, nonostante fosse stato lasciato solo dagli altri due delegati di fabbrica, testimonia al processo e fa condannare Berardi, firmando così la propria condanna.

Al suo funerale partecipano 250mila persone e prendono la parola il segretario della Cgil Luciano Lama e il segretario del Pci, Enrico Berlinguer. È presente anche il presidente della Repubblica, Sandro Pertini, che poi va in visita ai “camalli”, gli scaricatori del porto, per parlare contro il terrorismo. Da quel momento si scava un solco incolmabile tra il mondo operaio e le Brigate Rosse. Tra quei 250mila in marcia dietro la bara c’era anche Cesare Damiano, all’epoca giovane funzionario della Fiom Cgil di Torino. «Era una giornata di pioggia, livida e fredda. Ricordo una selva sterminata di ombrelli e le urla di protesta degli operai, mentre avanzavano in corteo. Io arrivai in treno da Torino, con una delegazione di compagni del sindacato: un viaggio carico di tristezza mista al senso di impotenza davanti a un avvenimento del genere».

Una manifestazione forse tardiva?

Una manifestazione imponente, in cui gli operai di tutta Italia ripudiarono il terrorismo. Da questo punto di vista, il sacrificio di Guido Rossa rappresentò una svolta, perchè segnò l’inizio del declino delle Brigate Rosse. Con l’omicidio di un operaio, si ruppe il rapporto con quella parte, seppur minoritaria, di lavoratori che simpatizzavano per loro. Si fece strada anche nelle masse operai l’idea che il terrorismo rappresentasse un pericolo per le istituzioni democratiche.

Lei dov’era, in quel 1979?

Come si diceva allora, ero un funzionario della Fiom Cgil di Torino. Ero il responsabile degli impiegati e dei tecnici della provincia di Torino e ricordo che mi stavo occupando della vertenza Olivetti nella quale, con l’arrivo del nuovo proprietario Carlo de Benedetti, si erano annunciati tremila licenziamenti. Prima, invece, la mia esperienza sindacale era maturata nel centro caldo per i metalmeccanici torinesi: la Fiat Mirafiori, nella mitica Quinta Lega della Fiom di corso Unione Sovietica.

Come si visse, all’interno del sindacato rosso per antonomasia, la stagione degli anni di piombo?

Bisogna capire che la Torino di allora era teatro continuo di uccisioni, ferimenti e gambizzazioni, da parte delle Brigate Rosse e di Prima Linea, che riguardavano i grandi stabilimenti della Fiat. Tutto era cominciato nel 1973, con il sequestro di Bruno Labate a Mirafiori, rivendicato dalle Br. Lui era un sindacalista dell’allora Cisnal, attuale Ugl, considerato all’epoca un sindacato fascista: venne legato ad un palo fuori dalla fabbrica e rasato, come facevano i partigiani nei confronti dei traditori durante la resistenza.

Reagiste?

No. All’epoca noi sindacalisti della FLM, la federazione dei lavoratori metalmeccanici, considerammo l’episodio come marginale, perchè non ci riguardava. Poi l’escalation crebbe, con il sequestro del capo del personale Fiat, Ettore Amerio. Anche in quel caso, valutammo l’episodio come marginale, perchè anche allora non ci riguardava. Ma i ferimenti e le gambizzazioni continuarono: sempre di dirigenti aziendali, però, dunque realtà non direttamente riconducibili al nostro mondo. Faceva parte del clima di quell’epoca, in cui le Br e Prima Linea non erano ancora chiaramente percepite come ciò che si sono poi rivelate.

E come erano percepite?

Le dico con onestà: una parte dei lavoratori della fabbrica, seppure minoritaria, aveva qualche simpatia nei confronti di Br e Prima Linea. Eravamo negli anni Settanta, il conflitto nelle fabbriche era aspro e le Br si presentavano come un movimento anticapitalista e antipadronale, assumendo in qualche modo il ruolo dei giustizieri dei diritti negati ai lavoratori. Il clima nelle fabbriche era di parziale copertura e questo consentiva ad alcuni esponenti del terrorismo di nuotare in quel mare, forti di una sorta di protezione indiretta.

Fino a quando Guido Rossa, un anno dopo il tragico epilogo del sequestro Moro, non denunciò un operaio che faceva propaganda per le Br.

Segnò un punto di svolta. Per smantellare questo tipo di fiancheggiamento di fabbrica al terrorismo il sindacato, unitariamente con le forze politiche dell’arco costituzionale, non si risparmiò. In quello stesso anno facemmo fir- mare ai 600 delegati del consiglio di fabbrica di Mirafiori - detto il “consiglione” perchè rappresentava i 60mila operai dello stabilimento - un documento di condanna del terrorismo. Solo pochi non lo firmarono, dichiarando così la loro connivenza, e vennero espulsi. Non bastò, però.

Perchè?

Molti brigatisti lo firmarono per mascherarsi. Ricordo perfettamente Luca Nicolotti: era delegato della Fim Cisl e durante le lotte teneva discorsi da moderato. A un certo punto scomparve, dicendo di aver ricevuto la cartolina della leva e che doveva andare al sud. Gli facemmo una festa nella lega sindacale, prima della partenza. Non arrivo mai a destinazione: entrò in clandestinità. Così, scoprimmo che era un brigatista della prima ora. Un altro di loro era Nicola D’Amore, iscritto alla Cgil e pronto a prendere la tessera del Pci, pur di mimetizzarsi. Lavorava alle presse di Mirafiori, ma nel cambio turno sparava ai dirigenti di altre fabbriche. Uccise un capo officina della Lancia.

E la morte di Rossa segnò la svolta.

Sì, perché i lavoratori capirono che il vero bersaglio di quella rivoluzione erano loro. Le Br avevano ucciso un comunista, un operaio, un delegato sindacale, uno di loro.

La percezione del fenomeno eversivo cambiò anche all’interno del sindacato?

Cambiò attraverso lo studio del fenomeno. . Su questo terreno, il sindacato era veramente esposto, così come lo erano le forze dell’arco costituzionale. Non ci furono solo le assemblee nelle fabbriche per spiegare ai lavoratori il rischio del terrorismo, ma anche le assemblee nei quartieri, con i partiti. A Torino, per esempio, organizzammo la compilazione di un questionario per indicare situazioni che potevano destare sospetto nell’opinione pubblica. Insomma, si provava come si poteva a togliere l’acqua ai pesci.

In che rapporti eravate con il Pci?

Il rapporto tra sindacato e i partiti, non solo il Pci, era ancora segnato dalla logica della cinghia di trasmissione. L’impeto del ‘ 68 aveva scomposto la rigida architettura della relazione tra sindacato e partiti, che per tradizione voleva ricondurre la Cgil al Pci e al Psi, la Cisl alla Dc e la Uil al Partito Socialista e Socialdemocratico ma, nonostante questo, soprattutto per la Cgil l’influenza del Pci era ancora forte. Per quanto riguarda il terrorismo, però, sindacato e partiti erano schierati dalla stessa parte e dunque il rapporto si rinsaldò e anzi, i sindacati aprirono le porte delle fabbriche alla politica.

Alla luce di tutto questo, a quarant’anni di distanza, direbbe che la sottovalutazione del fenomeno terroristico da parte del sindacato ebbe un ruolo indiretto nell’omicidio Rossa?

La figlia di Guido Rossa è stata mia collega in Parlamento e da lei ho ricavato la percezione di una sorta di isolamento di Rossa. Quando denunciò il brigatista, si sentì abbandonato o comunque non sufficientemente protetto. Non ho elementi diretti per fare una valutazione, tuttavia è emerso successivamente che l’obiettivo delle Br era la gambizzazione e non l’uccisione. Forse, gli stessi terroristi avevano intuito la possibilità che un omicidio potesse provocare un distacco dai lavoratori che, a parole, la loro promessa messianica di rivoluzione prometteva di proteggere.