Conosco la vicenda dell’ex ergastolano Cosimo Commisso solo attraverso il suo memoriale pubblicato sulla testata online “Urla dal silenzio”. So bene che nell’immaginario collettivo, e non solo, egli è considerato il “capo” della ndrangheta di Siderno – la più agguerrita ed “istituzionalizzata” della Locride - e che in quanto tale avrebbe guidato il suo esercito contro la “sedizione dei Costa” in una guerra con qualche centinaio tra morti e feriti. Venti anni fa è stato condannato all’ergastolo; dopo 26 anni di carcere è stato assolto «per non aver commesso il fatto».

La “grande stampa” ed il mondo istituzionale hanno ignorato la notizia per non fare i conti con la realtà. Noi non possiamo tacere anche se non avrei nulla da dire se non che la “Giustizia” pretende che un uomo paghi per i propri crimini ma solo per quelli che ha realmente commesso. E tocca allo “Stato” dimostrare, aldilà di ogni ragionevole dubbio, la sua colpevolezza. Può piacere o meno ma è lo Stato di diritto che dovrebbe tutelare ognuno di noi e che fornisce alla “Giustizia” tutti gli strumenti legali per estirpare la ’ ndrangheta dal territorio calabrese.

Una necessità improcrastinabile ed i cittadini pagano le tasse perché questa lotta venga finalmente vinta! Ma perché ciò avvenga lo “Stato” avrebbe avuto ( ed ha) il dovere di provare la propria superiorità etica e politica, dimostrando a tutti ( anche ai criminali) che la Repubblica non mette in piedi processi sommari ne falsifica le prove e che gli uomini dello “Stato” hanno solo una stella polare: la Legge.

Nel “caso Commisso”, proprio perché l’imputato è considerato un “capo” ndrangheta, il processo a suo carico avrebbe dovuto essere severo, rigoroso, inflessibile ma soprattutto giusto e supportato da prove certe anzi blindate. E non lo è stato! Ed infatti dopo 26 anni è crollato come un castello di carta.

Ed è un fatto oggettivamente grave. Grave sia nel caso in cui un colpevole sia sfuggito alla ' giustizia' ma ancora di più quando un tribunale, dopo 26 anni, stabilisce che l’imputato era innocente.

In casi come questo si trasforma il presunto colpevole in sicura vittima e non è di questo che avremmo bisogno. Serve per combattere la ndrangheta ?

Assolutamente no! Lo dimostra il fatto che dei tanti delitti che si sono consumati nella Locride ed in Calabria nell’ 80% dei casi non sappiamo l’autore. Nello stesso tempo l’opinione pubblica calabrese viene informata da una soffiata al Fatto che ben 15 magistrati calabresi sono iscritti nel registro degli indagati. Cosa nasconda tale notizia non lo sappiamo. Potrebbe trattarsi di pura lotta per il potere, di guerra preventiva, di studiata delegittimazione del “nemico”, di contrasto alla criminalità ma di sicuro non è una lotta per la tutela dei cittadini. Ed infatti: solo in Calabria ( ed in Catalogna) abbiamo un presidente della Regione - ( che può piacere o meno)- ma che resta confinato senza alcuna sentenza di condanna. Solo in Calabria i generali “governano” e rendono il loro omaggio simbolico negli uffici della Dda.

Solo in Calabria un sindaco è bandito dal proprio paese senza alcun processo. Solo in Calabria ( ed in Burundi) si possono sciogliere 110 consigli comunali regolarmente eletti.

E tutte queste cose messe insieme mi fanno dire che non si sconfigge la ndrangheta se non smantellando l’elefantiaco, costoso quanto inutile e nocivo apparato repressivo che è stato messo in piedi e che marcia nella direzione sbagliata ed i fatti lo dimostrano aldilà di ogni dubbio.

Personalmente non godo e non brindo quando le persone stanno in carcere ma ne comprendo la necessità nei casi in cui si dimostri che la carcerazione è strettamente necessaria per tutelare la società e prevenire altri delitti. In molti casi la galera serve però non per contrastare il crimine ma per formare e tacitare un’opinione pubblica rancorosa, rabbiosa, vendicativa che invoca la forca; anche se coloro che oggi applaudono saranno le vittime di domani. Il “popolo” costruisce le forche ed è il “popolo” ad essere impiccato.

Cosimo Commisso, guadagna la libertà nello stesso giorno in cui Cesare Battisti, probabile autore di gravi tragedie e sopravvissuto fisicamente alla stagione del terrorismo, è arrivato a Roma a scontare la sua pena. I due ministri che, sfidando il ridicolo, sono andati ad accoglierlo a Ciampino si guardano bene dal venire in Calabria per constatare il dramma della “legalità” che affoga nella malagiustizia mentre perde la battaglia contro la criminalità. Ne comprendo le ragioni: in Calabria ci sarebbe tanto da riflettere e lavorare ed, iniziando dai vertici, tanto ma tanto da cambiare. A Ciampino basta solo recitare.