Il motivo per il quale l’Italia si sta, da anni, impoverendo non ha nulla a che fare con motivazioni ideologiche o di politica monetaria come pure alcuni apprendisti stregoni – di sinistra così come di destra – vanno dicendo trovano consensi intermittenti. Il problema – tecnico, da affrontare con pragmatismo – è che semplicemente non riusciamo più, da tempo, ad attrarre o a trattenere le imprese e le persone di talento che maggiormente possono aumentare la produttività di cui un Paese ha assoluto bisogno per mantenere il proprio tenore di vita.

Tra le cause – tante – per le quali abbiamo perso tanto capitale umano, al primo posto c’è la complessità di un sistema fiscale che comporta un investimento di tempo ed un costo di incertezza che per molti imprenditori e professionisti è assolutamente incompatibile con l’esigenza di rimanere concentrati sulle proprie competenze. Ciò senza peraltro evitare che nel nostro Paese sia massima l’evasione che, non solo, sottrae risorse allo Stato, ma costituisce una forma di concorrenza sleale che penalizza, ancora di più, le imprese migliori. La conseguenza di un sistema fiscale non efficiente è, peraltro, non solo di tipo economico: il momento dell’imposizione è, infatti, lo strumento che qualifica il rapporto stesso tra Stato e cittadini e se esso non funziona si logora lo stesso Patto sociale che tiene insieme una società.

Dovrebbe partire da queste evidenze un ragionamento serio di un governo che volesse, sul serio, invertire un declino italiano che dura, ormai, come dicono i numeri e non solo quelli del Pil, da almeno un quarto di secolo.

L’ultimo governo ha, indubbiamente, avuto una buona intuizione – con la Flat Tax – ma in realtà ciò che è necessaria è una profonda ristrutturazione del sistema. Che ridisegni l’intero impianto normativo, rendendolo, però, stabile; ripensi la distribuzione dell’imposizione tra diverse tipologie di reddito ( andrebbero tassati di meno chi lavora e fa impresa e di più gli immobili e i consumi, anche perché misurarne il valore è meno complicato in un contesto nel quale i processi produttivi diventano virtuali); riorganizzi le agenzie premiandone i risultati.

Non è, del resto, la quantità assoluta di tasse ( in rapporto alla ricchezza nazionale) pagate dalle imprese italiane, il nostro svantaggio più grave: Paesi dove l’imposizione fiscale è più alta – quelli nordici, la stessa Francia – riescono a crescere e ad innovare di più.

Ciò che davvero ci mette fuori mercato – dicono le evidenze della Banca Mondiale e di alte organizzazioni internazionali è il confronto, in termini, di numeri di giorni spesi per calcolare quanto pagare o per rispondere a cartelle; per numero di pagamenti da effettuare; per mesi che passano prima di ottenere un rimborso; per numero di volte che la legge fiscale viene cambiata e, dunque, per la gravità dei dubbi interpretativi che lasciano – per anni – i contribuenti esposti a richieste tardive. Peraltro, un processo così costoso non impedisce – e queste sono, invece, statistiche della Commissione Europea – al nostro Paese di far registrare un’evasione ( ad esempio Iva) che è due volte maggiore a quella stimata per economie più grandi come la Francia o la Germania che, pure, sono economie più grandi.

Di fronte a questa situazione va bene aumentare la platea dei piccoli imprenditori che pagano in maniera forfettaria e che si liberano, appunto, del costo – di tempo e incertezza – di tenere la contabilità: non è una Flat Tax ma è, comunque, una semplificazione di cui hanno assoluto bisogno imprenditori e la stessa Agenzia delle Entrate per concentrarsi sulle partite più importanti. Meno bene vanno i condoni che sono un’abitudine praticata quasi da tutti gli ultimi governi perché, comunque, introducono un elemento di incertezza e legalizzano un’ingiustizia. È, però, necessaria è una riforma molto più complessiva; un utilizzo delle tecnologie che non rendano ancora

più rigidi processi non efficienti; la responsabilizzazione delle agenzie nel caso di richieste di pagamento sbagliate che sottraggono tempo e fiducia e che premino chi consegua risultati significativi; il coinvolgimento dei professionisti – commercialisti, avvocati, notai – che avessero capito che il futuro passa attraverso una modernizzazione coraggiosa.

In realtà per i sistemi fiscali dovrebbe valere ciò che vale per i sistemi di sicurezza negli aeroporti: quelli che funzionano massimizzano la sicurezza dei passeggeri ( rendendo massimo il disincentivo per chi volesse compiere un attentato) e minimizzano il fastidio ed il tempo perso in code. La qualità del sistema di controllo è diventato, peraltro, una leva di competizione tra aeroporti di grande importanza, perché se quel rapporto tra massima sicurezza e minimo fastidio salta, i passeggeri sceglieranno, la prossima volta, un altro scalo ed un’altra città.

In Italia siamo – da molto tempo – in una situazione nella quale riusciamo a minimizzare la legalità ( e ad avere i massimi livelli di evasione) e a massimizzare gli inconvenienti ai quali sono sottoposti cittadini normali ( tra i quali anche chi – ed è umano – salta un pagamento dopo aver dichiarato di doverlo fare). In questa maniera i passeggeri di maggior pregio della nave Italia, cambiano – circa centomila nostri cugini e figli all’anno – nave impoverendoci tutti.

Vanno bene alcune misure della parte fiscale della Finanziaria, ma mi aspetterei, di più, una vera e propria riorganizzazione – fatta di strategia e di dettagli, di obiettivi e di tempi - ad un governo del cambiamento che voglia sottrarsi alla maledizione che vede, in Italia, chi governa perdere, sempre, le elezioni successive. A mio avviso, su questa maledizione pesa molto un sistema fiscale che, nel tempo, è diventato luogo di scontro strisciante e permanente tra uno Stato e i cittadini che pagano per il suo funzionamento.