Ci hanno messo quindici anni, gli americani – dal 1968, pochi giorni dopo la morte, fino al 1983, quando con 338 voti contro 90 alla Camera e 78 contro 22 al Senato divenne legge. E così Reagan la firmò.

Ma ce ne vollero altri dieci perché in tutti gli Stati uniti d’America si rispettasse questa festa. E c’erano volute marce e proteste e petizioni per arrivare a quel punto: il terzo lunedì di gennaio è il Martin Luther King Day. Che poi gli americani hanno queste date importanti messe così: il Thanksgiving si festeggia il quarto giovedì di novembre; si vota per eleggere il presidente il martedì successivo al primo lunedì di novembre ( nel 2016 si votò tardi perché c’era un martedì 1 novembre, ma non c’era nessun lunedì precedente, e così si votò l’ 8 novembre). Non è proprio la data in cui il dottor King è nato ma ci è abbastanza vicino. Martin Luther King nacque ad Atlanta, in Georgia, il 15 gennaio 1929, secondogenito di Martin Luther King Senior, reverendo della chiesa battista, e anche il nonno materno di Martin era pastore. A quindici anni riuscì a superare l’esame di ammissione al college di Atlanta, frequentato in precedenza da suo padre e da suo nonno – dove si laureò in sociologia nel giugno del 1948. Martin voleva diventare avvocato o medico, mentre il padre insisteva perché diventasse pastore battista come lui. Il 13 settembre 1951 iniziò a frequentare l’Università di Boston, dove conobbe Coretta Scott con cui si sposò il 18 giugno 1953 e conseguì il dottorato in Filosofia.

Nel 1954, ebbe diverse offerte, di cui una dalla chiesa battista di Dexter Avenue a Montgomery, in Alabama, che accettò volentieri. A venticinque anni Martin Luther King Jr. diventò così il pastore di una delle città nel profondo Sud degli Stati Uniti dove la situazione razziale era tra le più dure. Entrò a far parte della sede locale del NAACP ( National Association for the Advancement of Colored People) e diventò vicepresidente del Consiglio dell’Alabama per i rapporti umani.

È proprio a Montgomery, nel 1955, che scoppiò il boicottaggio dei bus deciso dalla comunità afroamericana. Sui bus c’erano posti riservati ai bianchi e posti per i neri e poi c’erano i posti di mezzo, dove poteva sedere chiunque, ma se un bianco voleva sedersi e il posto era occupato da un nero, il nero si doveva alzare e cedergli il posto e restare in piedi. Funzionava così. Rosa Parks, l’ 1 dicembre 1955, si rifiutò di cedere il proprio posto. Fu arrestata e condannata a pagare una multa. E qui scattò il boicottaggio per il 5 dicembre. Gli attivisti neri prevedevano che il sessanta per cento della popolazione nera avrebbe aderito, ma la percentuale fu molto più alta. Durò trecentottantadue giorni, il boicottaggio. Si spostavano a piedi, o con auto di amici o con taxi di afroamericani che praticavano tariffe da bus. Ci furono sentenze e violenze, tante, da parte del Ku Klux Klan che arrivò a lanciare una bomba contro la casa di King. Ma alla fine vinsero: il 13 novembre 1956 la Corte Suprema dichiarò anticostituzionale la segregazione sui bus.

È in questo periodo che King fonda, in compagnia di altri attivisti per i diritti civili della comunità afroamericana, il Southern Christian Leadership Conference ( Congresso dei leader cristiani degli stati del Sud) con l’obiettivo di dare un’autorità di riferimento al movimento per i diritti dei vari gruppi di neri che in precedenza si muovevano attorno le singole parrocchie della città. E è in questo periodo che scoppia la crisi di Little Rock. Nel 1954, negli Stati Uniti, si era deciso di porre fine alla segregazione razziale nelle scuole: prima di quell’anno bambini e ragazzi neri frequentavano scuole diverse da quelle dei loro coetanei bianchi, nonostante non esistesse alcun divieto ufficiale di creare classi miste. La situazione era molto dura soprattutto nel sud degli Stati Uniti.

Il 4 settembre 1957 a Little Rock, nell’Arkansas, era il primo giorno di scuola. Nove ragazzi neri – sei maschi e tre donne – erano stati selezionati per fre- quentare la principale scuola superiore cittadina, ma le truppe dell’Arkansas National Guard, che agivano per conto del governatore dello stato, impedirono loro l’accesso in aula. Pochi giorni dopo, il presidente Eisenhower commissariò l’Arkansas National Guard e inviò truppe federali a verificare che ai nove ragazzi neri fosse consentito l’ingresso a scuola e lo svolgimento dell’attività didattica. Nonostante la presenza dell’esercito, i nove studenti furono sottoposti a continue violenze e atti di discriminazione da parte dei loro compagni, sotto gli occhi dei docenti. L’estate successiva il governatore dell’Arkansas, pur di rinviare l’eliminazione graduale della segregazione, con la scusa delle continue violenze decise di sospendere le lezioni e tenere chiuse tutte le scuole. Il governo vietò l’apertura di scuole private per gli studenti bianchi, e l’anno successivo la scuola pubblica fu riaperta.

John Kennedy volle incontrare King, promettendo un impegno nella lotta per i diritti civili. Il settanta per cento della comunità afroamericana poi lo votò come proprio presidente. Fu anche grazie all’impegno della Casa bianca che la SCLC organizzò le campagne nel Sud per il diritto di voto, soprattutto in Mississippi e in Georgia.

È il movimento dei Free Riders, giovani studenti bianchi che partivano dal nord per andare negli Stati del Sud e aiutare le lotte dei neri per la registrazione negli elenchi dei votanti e per abolire le forme più odiose della discriminazione razziale, sugli autobus, nei ristoranti, nelle scuole. Subivano agguati e pestaggi da razzisti del Ku Klu Klan spesso con la faccia delle istituzioni.

Ma è nel lungo 1963 che King acquista vera dimensione di leader. Durante la campagna in Alabama, che era diventata simbolica del segregazionismo, soprattutto per la durezza del suo governatore George Wallace. L’ 11 giugno 1963, con i suoi sostenitori, Wallace si presentò davanti all’Università dell’Alabama per impedire la desegregazione dell’istituto e l’entrata ai corsi dei primi due studenti neri, Vivian Malone e James Hood, che erano scortati e protetti dalla Guardia Nazionale, dal marshall federale e dal procuratore dello Stato. I due allievi sarebbero entrati comunque nell’università tra le urla della folla. Un analogo tentativo di Wallace di impedire l’iscrizione di quattro studenti neri in quattro diverse scuole elementari a Huntsville nel settembre 1963 fu bloccato dall’intervento di un tribunale federale di Birmingham, consentendo ai quattro bambini di entrare, per la prima volta in Alabama, in una scuola integrata. In quello stesso anno un attentato mortale colpì una chiesa battista di Birmingham, uccidendo quattro bambine nere. Wallace fu ritenuto responsabile dell’atmosfera di odio che regnava nello Stato e King lo chiamò in causa personalmente, accusandolo di avere le mani sporche del sangue di quelle bimbe.

È anche l’anno in cui il presidente Kennedy presenta al Congresso un provvedimento per sancire pari diritti tra bianchi e neri, e è l’anno della marcia su Washington, per il lavoro e la libertà, quando duecentocinquantamila persone arrivano al Lincoln Memorial – bianchi e neri – e ascoltano il dottor King fare il suo più celebre discorso: I Have a dream.

E poi ci fu Selma. Nel 1964 c’era anche stato un Civil Right, ma dovevate vederli gli impiegati dell’Alabama o di qualche altro Stato del Sud come interpretavano la legge per votare, e serve questo e quest’altro, e questo non basta, e qui dice così, che ti passava la voglia e dovevi avere la pazienza di Giobbe e tutte le sere andare in qualche chiesa battista a batterti il petto e cantare qualche gospel a squarciagola – Oh! Lord, oh! my Lord – per lasciar correre.

Così avevano invitato il pastore a dare man forte. Il pastore era il dottor Martin Luther King jr. Decisero di fare delle marce di protesta. Tra gennaio e febbraio furono arrestati in tremila. Poi a Marion era rimasto ucciso Jimmy Lee Jackson, colpito da numerose pallottole sparate dalla truppa di Stato. È a quel punto che si pensò di organizzare una lunga marcia da Selma a Montgomery, la capitale. Sono cinquantaquattro miglia. Ottantasette chilometri.

La prima marcia fu il 7 marzo. Era domenica. Appena i seicento superarono il confine della contea, che era proprio il ponte Edmund Pettus, la polizia di Stato attaccò. Fu un massacro. Donne, bambini, preti, attivisti, tutti caricati senza pietà. Fu Bloody Sunday, domenica di sangue.

Poi ci fu una seconda marcia, due giorni dopo, con in testa Luther King, il percorso era stato appena iniziato. E anche stavolta ci furono cariche, dopo pochi chilometri, e i manifestanti furono dispersi. E poi ci fu una terza marcia, il 21 marzo.

E stavolta ce la fecero. Solo in trecento riuscirono a percorrere tutte e cinquantaquattro le miglia. Ma quando arrivarono allo State Capitol Building, il palazzo governativo, erano in venticinquemila. Era il 25 marzo. Ci avevano messo quattro giorni per coprire quelle cinquantaquattro miglia. È così che passò il Voting Rights Act di Lyndon Johnson.

Cinquant’anni dopo, a Selma, un corteo riattraversava lo stesso ponte e alla testa c’era il primo presidente nero, Barack Obama, che teneva la mano di Amelia Robinson, spinta su una sedia a rotelle – aveva ormai 104 anni. Cinquant’anni prima, quella donna marciava da Selma verso Montgomery, capitale dell’Alabama, perché i neri avessero il diritto di voto. Cinquant’anni prima la foto di questa donna, bastonata, colpita dai gas e dai manganelli della polizia di Stato, svenuta, incosciente sul selciato del ponte Pettus tra le braccia di un compagno aveva fatto il giro del mondo. Anche la foto di Obama con Amelia Robinson fece il giro del mondo. La storia aveva fatto un giro.

Eppure siamo ancora qui. Ancora con metodi di esclusione dei neri dal diritto di voto, e dopo Ferguson, dopo la sequenza di giovani neri assassinati dalla polizia. A più di cinquant’anni da quel maledetto colpo di fucile a Memphis. È il 4 aprile 1968, e King è al Lorraine Motel a Mulberry Street di Memphis. Nella sua stanza, la 306, assieme ai suoi collaboratori cerca di organizzare un nuovo corteo per uno dei giorni successivi. Doveva cenare a casa del reverendo Kyles, che alle 17 e 30 giunse al motel chiedendo al pastore di seguirlo. Salomon Jones, l’autista di King, gli consigliò, visto il freddo, di coprirsi con un cappotto. Alle 18 e un minuto King uscì sul balcone del secondo piano del motel, dove venne colpito da un colpo di fucile di precisione alla testa; un singolo proiettile calibro 30- 06 sparato da un Remington 760. Il proiettile entrò attraverso la guancia destra di King, spaccando la mascella e diverse vertebre mentre scendeva lungo il suo midollo spinale, tagliando la vena giugulare e le arterie maggiori prima di fermarsi sulla spalla. La forza del colpo strappò la sua cravatta. King cadde violentemente all’indietro sul balcone, incosciente. Trasportato al St. Joseph’s Hospital, i medici constatarono un irreparabile danno cerebrale, e la sua morte venne annunciata alle 19 e 05.

Senza quel maledetto colpo di fucile avrebbe novant’anni oggi, il dottor King. Niente di stano: Mandela è morto a novantacinque anni. D’altronde, ebbero entrambi il premio Nobel per la pace. Certo, le chiese battiste non sono più il cuore dell’attivismo e delle lotte per i diritti – Black Lives Matter è un movimento cresciuto attraverso i social – e un pastore dalla grande oratoria sembra più una reliquia. Anche se – ne sono sicuro – Beyoncé andrebbe a trovare nonno Luther, e si farebbero grandi chiacchierate.

E chissà quante cose avrebbe ancora da dire, nonno Luther, sul muro della vergogna che Trump vuole costruire per impedire ai migranti di entrare negli Stati Uniti, nella terra promessa. Perché siamo ancora qui, aspettando di salire sopra la montagna e guardare oltre. E vedere la terra promessa.