Allieva di Hans- Georg Gadamer, Donatella Di Cesare è una filosofa engagé. E del resto che il compito degli intellettuali debba tornare a essere politico, Di Cesare lo ha teorizzato nel suo ultimo libro: Sulla vocazione politica della filosofia,

Bollati Boringhieri. Un testo nel quale chiede ai filosofi di tornare a sporcarsi le mani anche rischiando di finire “fuori strada”. Soprattutto oggi, di fronte alla frana dei diritti che sta investendo mezza Europa, Italia in testa. Uno scivolamento che ha convinto Di Cesare a rispolverare e legittimare l’antica pratica della disobbedienza civile: “I cittadini non sono sudditi e non possono accettare supinamente una legge che, prima dei limiti di costituzionalità, ha superato quelli di umanità”, ha scritto in un bellissimo editoriale sul Corriere della Sera.

Di Cesare, dunque torniamo a Don Milani e Danilo Dolci, torniamo alla disobbedienza politica?

Intanto dobbiamo riaffermare la legittimità delle disobbedienza. Anzi, diciamo di più: in alcuni casi i cittadini - che non sono sudditi - devono sentirsi investiti dal dovere di disobbedire. Il passato ci insegna che noi tutti dobbiamo riflettere sulle leggi evitando l’obbedienza cieca ai codici. Dobbiamo avere un rapporto responsabile con la legge, chiederci sempre se questa sia legittima e giusta. Per questo dico che la disobbedienza può persino diventare un dovere.

La disobbedienza può essere anche spia di una debolezza politica dell’opposizione parlamentare?

Non vedo una relazione diretta tra le due cose. Provo a spiegarmi: la disobbedienza è sempre un segno di vitalità democratica, indipendemente dal regime di governo. Certo, poi dobbiamo anche dire che in Italia c’è un grande assente: l’opposizione, soprattutto rispetto al grande tema dell’immigrazione. Ma le due cose non sono per forza di cose legate. Insomma il fatto che in Italia non ci sia dialettica democratica parlamentare, ha poco a che vedere con la disobbedienza.

Neanche la rivolta dei sindaci contro il decreto Salvini ha a che fare con l’assenza di un’opposizione più decisa?

Certo, la rivolta dei sindaci anche se non parlerei di rivolta in senso stretto - è anche conseguenza di un’opposizione timida. Non c’è dubbio che il Pd eviti in tutti i modi lo scontro sulle questioni di fondo, sui conflitti profondi che stiamo vivendo. Io noto che c’è continuamente la ricerca di soluzioni esclusivamente giuridiche e burocratiche e mai politiche. Il Pd non si rivolge mai ai cittadini dicendo loro: guardate qui ci sono 50 migranti, 50 persone tra le onde e dobbiamo salvarle perché ne va anche dell’immagine etica di questo paese. Ecco, il Pd non dice nulla di tutto questo, non si appella ai valori morali del nostro Paese ma invoca leggi e regole. Ma questa assenza ha poco a che vedere con la questione della disobbedienza come strumento di battaglia democratica. E non è vero che la disobbedienza nasce ed è legittima solo nei regimi e nelle dittature. La disobbedienza ha cittadinanza anche nelle nostre democrazie. E allora si può disobbedire affinché si aprano i porti o, per esempio, a favore degli Sprar, quei luoghi di integrazione che il governo vuol chiudere.

Rimaniamo sull’opposizione: non crede che la narrazione dell’opposizione, sul tema centrale dell’immigrazione, sia del tutto simile a quella di chi governa? E non crede che sia questa la sua debolezza?

Certo, la narrazione complessiva è tutta spostata verso destra. E questo ha accentuato una frattura nella società civile che da un lato si polarizza intorno al ministro Salvini, e dall’altro si allontana dal Pd, che non è più visto come luogo di una opposizione “radicale” e alternativa. Sono convinta che c’è un’Italia che ha voglia di vedere rappresentate le proprie idee di accoglienza e umanità.

Lei distingue legalità e legittimità, norma e giustizia...

Se mi interrogo sulla legittimità già mi pongo in una posizione “fuori dalla legge” perché mi sto interrogando sulla “moralità” di quella legge e scopro il valore della disobbedienza. Per questo insisto sulla distinzione tra legalità e legittimità e tra diritto e giustizia. Il diritto non potrà mai rispondere in modo esaustivo alla tensione verso la giustizia.

Per questo invoca l’impegno dei filosofi in politica?

Credo che sia arrivato il momento di rompere il tabu secolare dello “splendido isolamento” della filosofia.

Dobbiamo superare la divisione manichea tra la politica, vista come qualcosa di concreto e pragmatico, e la filosofia relegata al ruolo di scienza astratta. Sono convinta che i filosofi debbano occuparsi di politica per evitare che essa diventi pura governance e amministrazione dell’esistente senza alcun afflato filosofico. E la filosofia deve intervenire proprio per smantellare l’idea che alle leggi si obbedisce sempre. Ecco io contesto questa obbedienza cieca, quest’idea politica che è del tutto priva di visione filosofica. Per questo dico che l’intervento dei filosofi nello spazio pubblico non solo è giusto, ma indispensabile.

E’ un caso, secondo lei, che le voci più dure contro questo governo siano la sua e quella di Cacciari: due filosofi?

Non è un caso: i filosofi hanno ben chiara in mente la bancarotta etica del nostro paese e la differenza tra legalità e giustizia...