Basta con van Gogh! Sarebbe davvero interessante presentarsi davanti ai cinema dove viene proiettato l’ennesimo film sul leggendario pittore martire olandese Vincent van Gogh ( 1853- 1890), così per spassionatamente domandare al pubblico che lascia la sala, a caldo, con professionalità cronistica assoluta, se mai, tornando a casa, già che c’è, per empatia, lo spettatore interpellato si taglierebbe un orecchio, come già, esemplarmente, iconicamente, fece il nostro Vincent nel dicembre 1888, dopo aver litigato con l’esasperato collega Paul Gauguin, o almeno così si narra, sembra infatti che alla fine dello scazzo, il nostro, avrebbe rivolto proprio verso di sé ogni furore autolesionistico, tagliandosi appunto il lobo dell'orecchio sinistro.

Ma c’è una domanda ulteriore che, perfino intuendo la risposta, molti di noi dovrebbero doverosamente porsi per abbattere ogni steccato di retorica culturale edificante: già, cosa abbia fatto esattamente di male, al di là del suo talento e della sua intemperanza, e ancora oltre all’avere spalancato le porte della linea espressionistica dell’arte contemporanea, così come Cézanne perviene alla linea dell’astrazione, sì, cosa ha consentito a van Gogh di diventare oggetto di estenuante, mitologica, narrazione cinematografica, filmica e perfino televisiva? Volete la risposta? Posto che non c’è mai pace per gli sventurati pittori irriducibili al conformismo, e intanto che dico così mi torna in mente un terrificante hollywoodiano José Ferrer nei panni striminziti di Toulouse- Lautrec. Eccola, la soluzione: il sedentario piccolo borghese, abbondantemente già sazio di un’esistenza scandita, metti, da casa- lavoro- pantofole- lettura e/ o compilazione, che so, di un cruciverba, sì, il proverbiale uomo medio, sceglie da sempre di affrontare i chiodi acuminati e il tetano dell’arte per conto terzi, in una sorta di vai- avanti- tu- Vincent perché- io– desidero- invece- morire- serenamente- nel- mio- letto… La stessa icona di un van Gogh canonizzato, soprattutto il nome del proprio vissuto tribolato, insieme ad altri “maledetti” - pensate all’altro tragico caso del povero Caravaggio o di Arthur Rimbaud con la sua “stagione all’inferno” nell’ambito poetico e letterario - è stato scelto da quest’ultimo come antieroe ottimale, perfetto per quel suo drammatico precipitare nel pozzo artesiano del sublime mortale, così, alla fine, l’anima piccina del supplente a vita vede una sorta di propria catarsi. D’altronde, la medesima cosa, come un’amica mi fa notare, avviene nel contesto della musica rock, anche Jim Morrison e Janis Joplin, a loro modo, sono dei Vincent, si sono privati idealmente dell’intero orecchio della propria vita immolandosi così sugli altari del mito.

Van Gogh, in questo senso, nel suo scafandro della rivelazione cromatica, nella sua eterodossia tecnico- pittorica, con il suo misticismo che si riassume nell’apoteosi dei raccoglitori di patate e nel fatto che tale povero tubero sulle sue tele assume la stessa esemplarità delle gemme, è quasi una sorta di astronauta della maledizione; lo si à già detto, nessuno di noi, sensatamente, avrebbe mai il coraggio e neppure l’intenzione delirante di tagliarsi un lobo d’orecchio, ciononostante divendo spettatori dell’esistenza di un van Gogh tutti noi possiamo illuderci, a nostra volta, di essercelo metaforicamente rescisso. Confortandoci nell’idea che tra arte e follia e perfino il suicidio, come accadrà a Van Gogh, esista un filo diretto.

Sarebbe interessante riuscire a penetrare nelle pupille e da lì nel cervello dei visitatori di una mostra, più o meno museale, del nostro, poco importa se ad Amsterdam o in trasferta, davanti all’immagine dei girasoli e interrogarsi cosa esattamente l’uomo medio intraveda e soprattutto colga della “modernità” di Vincent, forse i colori?

Tornando invece alla produzione filmica dedicata all’artista martire, va detto che pure quest’ultimo “Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità” diretto dal pittore e regista Julian Schnabel, Willem Dafoe nella parte del “suicidato della società”, così come lo definiva Antonin Artaud, altro esempio agiografico d’estro e follia, già dal promo grida vendetta per prevedibilità oleografica, e il fatto che sia girato “nei luoghi dove visse realmente Van Gogh negli ultimi anni della sua vita” ha la stessa inquietante prevedibilità della dicitura “tratto da una storia vera”.

Peccato ancora che sia proprio Schnabel, colpevole di essersi già misurato al cinema con un Basquiat, altro succedaneo di van Gogh, altrove pittore apprezzabile nella sua cifra post- informale allegorica, a farci dono di un’opera che già dalla fotografia suggerisce un poster scontato.

Forse, pensandoci bene, occorrerebbe un’opera definitiva, un kolossal pietra tombale, su van Gogh che metta infatti fine a tutte le possibili declinazioni spettacolari sul personaggio stesso, magari affidata a Mel Brooks, risposta implicita anche alle tesi di Walter Benjamin sull’ “aura” perduta in tempi di riproducibilità tecnica - l’ennesimo poster, appunto – penso così ritrovando il ricordo di un altro delittuoso film contiguo al nostro tema, “L’incredibile furto di Mr. Girasole”, 1968, con Edward G. Robinson, dove quest’ultimo, un gangster, commissiona proprio il furto di un van Gogh per averlo davanti, come una sorta di sinfonia cromatica, nel momento di lasciare la vita. Dai, confidiamo in Mel Brooks, soltanto lui ci potrà infine salvare dal virus dell’edificante retorica vincentiana.