Per la prima volta dal quattro marzo l'establishment istituzionale, finanziario e industriale intravede un barlume di luce in fondo al tunnel. Dal giorno delle elezioni, l'ombra di un Paese in mano a forze incontrollabili e imprevedibili, pericolosissime per la stabilità complessiva, tiene banco. I fatti si stanno incaricando di riportare la situazione all'ordine, almeno nell'impressione dei piani alti e dei salotti buoni. Non è ancora possibile però tirare il fiato. C'è un'incognita che grava sul quadro complessivo, e finché quella carta non verrà scoperta sarà impossibile dire se il progetto di riportare sotto controllo la situazione è realistico o se si tratta invece di un miraggio. Quell'incognita ha un nome e un cognome, Matteo Salvini.

Il tavolo politico riportato all'ordine che si profila almeno sulla carta è chiaro. La tensione tra Lega e M5S cresce in maniera esponenziale: è previsione ormai unanime che il contratto verrà stracciato al più tardi dopo le europee ma anche arrivare a quel non lontano traguardo si configura come impresa quasi impossibile. I punti di frizione sono innumerevoli e si moltiplicano di giorno in giorno, ma il fattore davvero deflagrante, pur se inconfessato, rischia di essere proprio quello che è stato sin qui il cemento dell'alleanza: la legge di bilancio e il conseguente scontro con l'Europa. Salvini non vuole uscirne perdente ma neppure travolto da un conflitto epocale che metterebbe in ginocchio il Paese fuori gioco il governo. Di Maio è molto meno disponibile a qualsiasi cedimento sostanziale.

Gli umori dei due eserciti sono sempre più livorosi. L'insofferenza dei leghisti nei confronti dei ben più sgangherati movimentisti a cinque stelle è sempre più palpabile. I dubbi nei confronti di una politica che si traduce puntualmente in un salasso di consensi a senso unico, dal Movimento al Carroccio, sono nelle file pentastellate ben più ampi di quanto non testimoni il dissenso “ufficiale' dei parlamentari vicini al presidente della camera Fico. Il senso del momento si riassume nell'ordine di scuderia diramato dal leader leghista agli alti ufficiali qualche giorno fa: «Bisogna evitare incidenti. Dobbiamo reggere almeno sino all'approvazione della legge di bilancio». I soci ce la faranno, ma sul seguito nessuno scommetterebbe a cuor leggero. A quel punto si dovrebbe formare una coalizione di governo omogenea e di destra, certamente guidata da Salvini ma pur sempre temperata dalla presenza di Forza Italia, oltre che dall'uscita di scena dei dilettanti a cinque stelle che aumenterebbe automaticamente il peso specifico dei leghisti ' responsabili', come Giorgetti. A quel punto, sempre nel libro dei sogni pacificanti, i 5S sarebbero più o meno costretti a ridefinirsi, di fatto, se non di nome, come forza di sinistra, alleata in prospettiva con un Pd comunque ' de- renzizzato' e magari la guida di quella coalizione non finirebbe neppure nelle mani incerte dei pentastellati. Il rapporto con l'Europa sarebbe a quel punto garantito, la stabilità finanziaria e politica arriverebbero come pioggia dopo la siccità.

Non è un progetto irrealistico, soprattutto se si guarda al versante destro della scacchiera. Ma è davvero quel che vuole Salvini, la figura chiave dalla quale dipende tutto? Da questo punto di vista, il sovranista numero uno è una sfinge. Sin qui, quando si è trattato di scegliere si è sempre mosso per salvare Di Maio, anche a costo di qualche doloroso cedimento ma soprattutto sul fronte della manovra, quando si è rifiutato di mettere il socio con le spalle al muro accettando quel deficit del 2% che avrebbe salvato la pace con la Ue ma affossato il reddito di cittadinanza.

Nelle settimane scorse, nello scambio di messaggi con il Colle, il ministro degli Interni avrebbe fatto chiaramente capire che, in caso di crollo della maggioranza, nel suo orizzonte ci sono le elezioni anticipate. Non è certo una posizione sorprendente: rinviando troppo il momento di passare all'incasso dei voti sonanti Salvini rischia di finire peggio di Renzi, che il 40% lo aveva visto solo alle europee. Al leghista potrebbe andare peggio: potrebbe vederlo solo nei sondaggi. Solo una tornata elettorale, inoltre, trasferirebbe sul piano dei numeri in Parlamento il vantaggio del Carroccio su Forza Italia e renderebbe inattaccabile la sua posizione di leader incontrastato della destra.

Ma quel passaggio elettorale il presidente della Repubblica non lo vuole e non ne fa mistero. Lo avrebbe detto senza mezzi termini a Berlusconi, che a sua volta vede le urne come l'orco delle favole, meno di un mese fa in un colloquio sfuggito all'attenzione dei cronisti. Ma per Salvini una nuova maggioranza prodotta da campagne acquisti e manovre di palazzo, potrebbe rivelarsi un passo indietro invece che avanti verso la conquista del potere. In quel caso, non è affatto escluso che preferisca fare il possibile per tenersi stretta la società con Di Maio. Tanto più che ha già chiarito ai suoi che una eventuale crisi non deve apparire neppure in misura minima come responsabilità della Lega. Dare per spacciata questa maggioranza non è certo un delirio. Ma fino a che Salvini non avrà scoperto le sue carte non è neppure quella certezza che molti danno già per acquisita.