Sono stato denunciato all’autorità giudiziaria, insieme al nostro Damiano Aliprandi, da due magistrati siciliani che ci accusano di diffamazione. Non so perché si sentano diffamati, conosco però gli articoli che Damiano ed io abbiamo scritto e per i quali ci vorrebbero mandare in carcere. Sono articoli che riguardano il famoso dossier chiamato “mafia e appalti” e al quale lavorò per diversi anni Giovanni Falcone insieme ad alcuni ufficiali dei carabinieri. Noi ci siamo limitati a raccontare cosa c’era scritto in questo dossier e a riportare notizie ( tutte prese da atti giudiziari ufficiali, o da interviste con testimoni, nessuna ricevuta da fonti riservate) e poi a mettere in fila queste notizie, per cercare di capire se c’è ancora qualcosa da capire sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. I magistrati che si sono sentiti diffamati, e che ci hanno querelato ( ora si aspetta che il Pm di Avezzano decida se chiedere o no il rinvio a giudizio) sono Roberto Scarpinato, attuale procuratore generale di Palermo, e Guido Lo Forte, ex Pm ora in pensione.
Noi effettivamente avevamo chiesto, nelle pagine del “Dubbio”, a Scarpinato e a Lo Forte, perché nel luglio del 1992, proprio nei giorni di fuoco della morte di Paolo Borsellino, chiesero l’archiviazione di quel dossier, e la ottennero molto rapidamente. In un mio articolo ho usato il termine “insabbiato”, riferendomi a questa archiviazione, ma non penso che questo termine, giornalistico, abbia dato la sensazione che volessi accusare Scarpinato o Lo Forte di errore volontario, anche perché ho scritto più volte, e molto sinceramente e chiaramente, di essere convinto e certo della loro buonafede. Non conosco personalmente Scarpinato e Lo Forte, ma ricordo di averli seguiti, un quarto di secolo fa, proprio negli anni immediatamente precedenti e immediatamente successivi alle stragi mafiose, quando facevo il giornalista all’Unità e il mio giornale fu molto impegnato nelle vicende siciliane. Penso di loro – soprattutto di Scarpinato, che conosco meglio, anche per la sua attività pubblicistica – che spesso tendano a confondere le proprie idee politiche e il proprio impegno civile, lodevolissimo, con le prerogative del magistrato, che non ha il compito di moralizzare la società ma solamente quello di accertare e perseguire i reati. In questa vicenda però c’entrano poco le caratteristiche intellettuali e professionali dei due magistrati, e tantomeno il giudizio che io do su di loro. C’entra invece un problema gigantesco. Che ruota attorno a questa domanda: perché sono stati uccisi Falcone e Borsellino ( e in particolare Borsellino)? Ci sono due sentenze recenti, che danno risposte opposte. Le ha raccontate molto bene Damiano Aliprandi. La sentenza del processo cosiddetto stato- mafia, la quale immagina che Borsellino sia stato ucciso perché aveva scoperto che alcuni apparati dello Stato trattavano con la mafia per indurla a sospendere la sua attività militare. Poi c’è la sentenza del processo Borsellino- quater ( quello sul depistaggio compiuto da picciotti della mafia e uomini dello Stato che indagavano sull’uccisione di Borsellino), la quale invece avanza l’ipotesi che Borsellino fu ucciso perché voleva indagare ancora sul dossier mafia e appalti. Ciò che rende ancora più clamorosamente in urto tra loro le due sentenze è il fatto che il dossier mafia e appalti fu curato da due alti ufficiali dei Ros che si chiamano Mario Mori e Giuseppe De Donno, e che erano collaboratori stretti di Falcone. I quali, dunque, se si dà retta alla sentenza del Borsellino- quater, sono vittime. Se si dà retta invece alla sentenza di stato- mafia sono colpevoli, perché partecipi della trattativa. Trattativa con chi? Con Totò Riina, che curiosamente è il capomafia che poi fu arrestato proprio da Mori e De Donno, i quali, di conseguenza, avrebbero messo nel sacco la primula rossa con la quale trattavano. Circostanza abbastanza curiosa. Non è una questione di lana caprina, quella della quale ci occupiamo. Se è vero che Falcone teneva particolarmente a questo dossier, se è vero che Borsellino avrebbe voluto prenderlo in mano e svilupparlo, se è vero che questo dossier scoperchiava la realtà di un rapporto “intimo” tra la mafia e un pezzo assai consistente dell’imprenditoria italiana, beh, capite bene che c’è la possibilità di avere una idea su cosa successe tra gli anni ottanta e novanta in Sicilia ( e ovviamente non solo in Sicilia) molto diversa da quella corrente. Per questo abbiamo chiesto ai due magistrati che ora ci querelano di spiegarci come mai quel dossier fu archiviato. Non era una domanda polemica: era una domanda domanda. Ho sempre pensato che il nostro lavoro, di noi giornalisti, consista essenzialmente in questa attività: vedere le cose, metterle in ordine, cercare di capire come sono connesse le une alle altre, e raccontarle ben bene ai lettori. Senza fermarsi davanti all’autorità. Né all’autorità politica né all’autorità giudiziaria. Probabilmente non tutti la pensano così. Forse ci sono alcuni magistrati che invece sono convinti che chi critica la loro opera si mette di fatto contro la legge. Ostacola la giustizia. E se è così, capite bene, anche per noi non è facile lavorare. Anche perché i magistrati sono potenti, molto più potenti dei politici…
Se ti querelano due magistrati antimafia
Sono stato denunciato all’autorità giudiziaria, insieme al nostro Damiano Aliprandi, da due magistrati siciliani che ci accusano di diffamazione. Non so perché si sentano diffamati, conosco però gli articoli che Damiano ed io abbiamo scritto e per i quali ci vorrebbero mandare in carcere. Sono articoli che riguardano il famoso dossier chiamato “mafia e appalti” e al quale lavorò per diversi anni Giovanni Falcone insieme ad alcuni ufficiali dei carabinieri. Noi ci siamo limitati a raccontare cosa c’era scritto in questo dossier e a riportare notizie ( tutte prese da atti giudiziari ufficiali, o da interviste con testimoni, nessuna ricevuta da fonti riservate) e poi a mettere in fila queste notizie, per cercare di capire se c’è ancora qualcosa da capire sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. I magistrati che si sono sentiti diffamati, e che ci hanno querelato ( ora si aspetta che il Pm di Avezzano decida se chiedere o no il rinvio a giudizio) sono Roberto Scarpinato, attuale procuratore generale di Palermo, e Guido Lo Forte, ex Pm ora in pensione.
Noi effettivamente avevamo chiesto, nelle pagine del “Dubbio”, a Scarpinato e a Lo Forte, perché nel luglio del 1992, proprio nei giorni di fuoco della morte di Paolo Borsellino, chiesero l’archiviazione di quel dossier, e la ottennero molto rapidamente. In un mio articolo ho usato il termine “insabbiato”, riferendomi a questa archiviazione, ma non penso che questo termine, giornalistico, abbia dato la sensazione che volessi accusare Scarpinato o Lo Forte di errore volontario, anche perché ho scritto più volte, e molto sinceramente e chiaramente, di essere convinto e certo della loro buonafede. Non conosco personalmente Scarpinato e Lo Forte, ma ricordo di averli seguiti, un quarto di secolo fa, proprio negli anni immediatamente precedenti e immediatamente successivi alle stragi mafiose, quando facevo il giornalista all’Unità e il mio giornale fu molto impegnato nelle vicende siciliane. Penso di loro – soprattutto di Scarpinato, che conosco meglio, anche per la sua attività pubblicistica – che spesso tendano a confondere le proprie idee politiche e il proprio impegno civile, lodevolissimo, con le prerogative del magistrato, che non ha il compito di moralizzare la società ma solamente quello di accertare e perseguire i reati. In questa vicenda però c’entrano poco le caratteristiche intellettuali e professionali dei due magistrati, e tantomeno il giudizio che io do su di loro. C’entra invece un problema gigantesco. Che ruota attorno a questa domanda: perché sono stati uccisi Falcone e Borsellino ( e in particolare Borsellino)? Ci sono due sentenze recenti, che danno risposte opposte. Le ha raccontate molto bene Damiano Aliprandi. La sentenza del processo cosiddetto stato- mafia, la quale immagina che Borsellino sia stato ucciso perché aveva scoperto che alcuni apparati dello Stato trattavano con la mafia per indurla a sospendere la sua attività militare. Poi c’è la sentenza del processo Borsellino- quater ( quello sul depistaggio compiuto da picciotti della mafia e uomini dello Stato che indagavano sull’uccisione di Borsellino), la quale invece avanza l’ipotesi che Borsellino fu ucciso perché voleva indagare ancora sul dossier mafia e appalti. Ciò che rende ancora più clamorosamente in urto tra loro le due sentenze è il fatto che il dossier mafia e appalti fu curato da due alti ufficiali dei Ros che si chiamano Mario Mori e Giuseppe De Donno, e che erano collaboratori stretti di Falcone. I quali, dunque, se si dà retta alla sentenza del Borsellino- quater, sono vittime. Se si dà retta invece alla sentenza di stato- mafia sono colpevoli, perché partecipi della trattativa. Trattativa con chi? Con Totò Riina, che curiosamente è il capomafia che poi fu arrestato proprio da Mori e De Donno, i quali, di conseguenza, avrebbero messo nel sacco la primula rossa con la quale trattavano. Circostanza abbastanza curiosa. Non è una questione di lana caprina, quella della quale ci occupiamo. Se è vero che Falcone teneva particolarmente a questo dossier, se è vero che Borsellino avrebbe voluto prenderlo in mano e svilupparlo, se è vero che questo dossier scoperchiava la realtà di un rapporto “intimo” tra la mafia e un pezzo assai consistente dell’imprenditoria italiana, beh, capite bene che c’è la possibilità di avere una idea su cosa successe tra gli anni ottanta e novanta in Sicilia ( e ovviamente non solo in Sicilia) molto diversa da quella corrente. Per questo abbiamo chiesto ai due magistrati che ora ci querelano di spiegarci come mai quel dossier fu archiviato. Non era una domanda polemica: era una domanda domanda. Ho sempre pensato che il nostro lavoro, di noi giornalisti, consista essenzialmente in questa attività: vedere le cose, metterle in ordine, cercare di capire come sono connesse le une alle altre, e raccontarle ben bene ai lettori. Senza fermarsi davanti all’autorità. Né all’autorità politica né all’autorità giudiziaria. Probabilmente non tutti la pensano così. Forse ci sono alcuni magistrati che invece sono convinti che chi critica la loro opera si mette di fatto contro la legge. Ostacola la giustizia. E se è così, capite bene, anche per noi non è facile lavorare. Anche perché i magistrati sono potenti, molto più potenti dei politici…
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