I 10 giorni di Festa del cinema di Roma, 13 se si contano le preaperture, stanno volgendo al termine. In una manifestazione che ha come mission quella di intrattenere il grande pubblico tra popolare e raffinato, non ci si può certo ridurre solo a fare un pronostico su chi vincerà il Premio del pubblico anche perché la partita, se si guarda ai consensi raccolti in questi giorni sembra se la stiano giocando solo Green book di Peter Farrelly con un inedito Viggo Mortensen, autista di un pianista afroamericano ( Mahershala Ali) nell’America ancora apertamente e visivamente razzista del 1962 e i giovani innamorati di Se la strada potesse parlare del premio Oscar Barry Jenkins, anche loro costretti a combattere contro la discriminazione razziale in quegli stessi USA anni 70’.

E sono proprio questi due film che intrisi della questione razziale che ancora non abbandona gli Stati Uniti si uniscono attraverso lo stesso amaro fil rouge a due altri titoli della Festa: Monsters and Men, opera prima di Reinaldo Marcus Green che pone a confronto tre personaggi nella loro divergente reazione verso l’assassinio ingiustificato di un uomo di colore e The Hate U Give, versione teen della stessa tematica in cui è una 16enne a veder morire un amico solo perché agli afroa- mericani negli Usa non è concesso lo stesso beneficio del dubbio e se non hai le mani bene in vista potresti fare una brutta fine.

Il cinema e le arti in generale, focus della festa, servono spesso a farci riflettere anche sul passato per farci comprendere meglio il presente che stiamo vivendo. Così volontariamente o involontariamente i titoli e i personaggi presenti alla Festa quest’anno hanno rafforzato l’identità di quest’ultima e sono stati fonte di ispirazione e riflessione, a cominciare dall’elegante Cate Blanchett, l’attrice australiana premio Oscar che ha spezzato una lancia a favore dei fallimenti nella sua vita: «Penso che ciò che ti renda indomito sia concentrarti sui tuoi fallimenti, e io ne ho avuti a migliaia personalmente e professionalmente e mi hanno insegnato molto di più sul non mollare e non ripetere gli stessi errori» ha detto e considerando quanto questa filosofia abbia funzionato per lei, non possiamo che rivalutare i nostri sbagli e sottoporli ad una luce diversa.

E che dire di Michael Moore, che con Fahrenheit 11/ 9, un’analisi sulle ragioni dell’inaspettata ascesa al potere di Trump negli Stati Uniti, ha spaventato ogni essere umano dotato di una coscienza politica anche qui in Italia. Moore non le manda certo a dire ma uno sguardo attento sull’America trova molte similitudini con i movimenti populisti europei compreso quello italiano così che il regista di Bowling a Columbine ci bacchetta: «Quando i media sono in mano alle multinazionali, accade questo: i ricchi non hanno interesse che le persone prendano coscienza della realtà e danno loro solo intrattenimento e così si istupidisce la nazione. Questo è il motivo per cui noi abbiamo Trump presidente e voi avete avuto Berlusconi e oggi Salvini». Una luce in fondo al tunnel ed alla paura di andare indietro nel tempo tra dittatura e schiavitù secondo Moore c’è e sono i giovani e l’essere tutti attivi in prima persona.

E a proposito di viaggi nel passato, era la memoria una delle parole chiavi di questa Festa e grazie a film che ci ricordano l’orrore dell’olocausto, la Festa spera di attivare le menti più atrofizzate di chi pensa di stare al sicuro in questo mondo all’apparenza democratico. Solo riportando alla mente ciò che è stato, si può forse evitare un destino di disuguaglianza, discriminazione ed odio per il diverso da sé. Una manifestazione che ha riservato un meritatissimo spazio alle donne, 12 le registe in concorso oltre alle star protagoniste degli Incontri Ravvicinati, non poteva non unirsi alla Mostra di Venezia, al Toronto Film Festival ed al Festival di Cannes nel firmare la Carta per la parità e l’inclusione stilata dal movimento internazionale 50/ 50 by 2020. In più, al mercato dell’audiovisivo di Roma, il MIA, l’associazione Women in Film, TV & Media Italia ha organizzato un panel dal titolo ReFrame che è un piano di azione volto a promuovere la parità di genere nell’industria dei media e dell’audiovisivo.

Tra le ospiti della Festa c’è chi ha contribuito a sovvertire gli stereotipi sui ruoli da sempre offerti alle attrici quasi inconsapevolmente: Sigourney Weaver. Da lei, i suoi personaggi leggendari come la Ripley di Alien, i registi dovrebbero imparare la lezione che lei ha impartito a chi ha lavorato con lei: «Si dovrebbe pensare a scrivere dei bei ruoli, a prescindere dal fatto che siano destinati ad un uomo o una donna, solo così ci sarà la vera uguaglianza».

Per la Weaver quindi il segreto è scrivere storie con personaggi a tutto tondo, il resto sta alla bravura degli attori.

In chiusura, tirando le somme, la Festa con il suo direttore Antonio Monda può essere soddisfatta per aver consolidato un modello di manifestazione in cui le arti si intrecciano e attirano pubblico e che non ha rivali in quanto unica nel suo genere. Resta da capire ora se l’offerta non sia troppo ricca rispetto alla domanda poiché spesso, in un mare di eventi e proiezioni, è difficile destreggiarsi e si rischia di perdere proprio l’evento a cui si teneva davvero.