«C’è una cosa da cui non si può prescindere: la responsabilità. Riguarda tutti: nel processo, ricade sui magistrati come sugli avvocati. Ebbene, quella responsabilità può essere la risposta alla delegittimazione della giustizia. All’insofferenza che monta nell’opinione pubblica verso ogni istituzione, direi ogni competenza. Nel sistema della giustizia, essere responsabili insieme è quanto di meglio possano fare magistrati e avvocati».

Elvio Fassone non esercita più funzioni giurisdizionali da diversi anni. Ma ha scandito gran parte della propria vita pubblica con un impegno vissuto anche senza la toga addosso: da presidente di Corte d’assise del Tribunale di Torino è divenuto, nel 1996, parlamentare nel centrosinistra di allora, ed è stato per due legislature, dieci anni, a Montecitorio. Non era tenuto a sfuggire ad alcuna normativa ma, spiega, «seppure alla fine del mandato alla Camera avessi ancora davanti diversi anni da poter impiegare in magistratura, fui io a decidere liberamente di dimettermi, proprio per evitare polemiche». Il suo profilo di giudice che vuol dare un contributo anche alla definizione della “struttura” – oltre che al suo concreto funzionamento – ha però trovato un’altra forma di espressione, letteraria: Fassone ha trasformato in un libro arrivato alla 13esima edizione, e adattato con successo a teatro, la sua corrispondenza con uno degli imputati al maxiprocesso alla mafia catanese in cui fu presidente del collegio giudicante: il libro è Fine pena ora e, pur senza fare concessioni sul tema dell’ergastolo, propone uno sguardo di profonda umanità sulla condizione di chi ha scritta davanti a sé ben altra sentenza, il “fine pena mai”.

Lei propone di cambiare senza ignorare le ragioni altrui. Ha scritto contributi scientifici sulla prescrizione non rinchiusi nel perimetro della sospensione a tempo indeterminato. Ma come si fa ad essere così zen di fronte a una tifoseria giustizialista che maciulla avvocati e magistrati non appena deludono le sue attese?

Vorrei fare una premessa. Trovo più che fondati gli allarmi che si diffondono fra avvocati e magistrati per uno stato di diritto continuamente messo in discussione da un certo comune sentire. Aggiungo: da magistrato nel pieno delle sue funzioni ho sempre sostenuto che è dovere di chi amministra la giustizia saper accogliere le critiche, ma a condizione che siano critiche e non insulti. Che non si degeneri.

Solo che sempre più spesso si degenera eccome: basta una misura cautelare non abbastanza restrittiva perché contro un gip si scatenino cortei, così come a un avvocato basta difendere chi è accusato di determinati reati per trovarsi con un proiettile nella cassetta della posta.

Non è tollerabile. E avvocatura e magistratura devono denunciarlo insieme, senz’altro. Avvocatura e magistratura fanno bene a denunciare con documenti comuni, intanto, situazioni di emergenza createsi in altri Paesi, come la Turchia e la Polonia, in cui gli operatori del diritto finiscono in manette. Ho letto il recente documento condiviso dalle associazioni europee della magistratura e dell’avvocatura progressiste per invocare la difesa della libertà di magistrati e avvocati minacciati in quei Paesi. Sono iniziative giuste, urgenti, opportune. Ma contro il fenomeno che è diffuso da noi, l’insofferenza verso le istituzioni e anche verso la giurisdizione, è più difficile trovare risposte.

Cosa intende dire?

Che si tratta di un fenomeno sociologico, culturale, che va contrastato innanzitutto sul piano della cultura. Ma è anche vero, e qui torniamo al discorso della responsabilità, che la cultura vive nei comportamenti quotidiani di ciascuno. E perciò dico che magistrati e avvocati insieme possono offrire un contributo straordinario nel contrastare la deriva dell’insofferenza, possono cioè dare esempio di proficua collaborazione. Mi riferisco alle attività quotidiane più semplici come la reciproca disponibilità nella fissazione del calendario delle udienze, così come alla più generale diffusione di un’idea elevata del diritto, della giustizia, con un impegno comune di tipo culturale. Di sicuro tutti gli atti compiuti in spirito di collaborazione sono una risposta serena alle tensioni che si diffondono.

Quali conseguenze possono produrre?

Al frastuono si risponde con la civiltà. L’atteggiamento costruttivo nel condurre la macchina della giustizia è il modo migliore per affermare il valore della competenza. Chi ha competenza deve distinguersi anche per la capacità di metterla al servizio dell’interesse generale. Così è possibile che parte dell’opinione pubblica torni ad apprezzare proprio quella competenza oggi disconosciuta, e sacrificata da chi cerca il consenso. Oggi l’autorevolezza è messa da parte pur di trovare voti nel compiacimento delle istanze del popolo. È un altro aspetto di quel fenomeno della delegittimazione, e lo considero assai preoccupante.

Avvocati e magistrati sono distanti su diverse altre questioni, per esempio la prescrizione: in diversi suoi scritti lei propone una soluzione diversa da quella della sospensione a tempo indeterminato.

Propongo una soluzione basata sulla distinta valutazione tra il tempo decorso per responsabilità della magistratura e quello che trascorre senza che, per così dire, il magistrato ne abbia colpa. Io credo che entro un limite massimo da stabilire per legge, il tempo trascorso senza colpo ferire dal momento in cui si presume sia stato commesso il reato fino alla ricezione della notizia di reato non debba essere conteggiato nel decorso dei termini di prescrizione. Mi spiego: se uno di quei reati per i quali di solito si pone tale problema, dunque non i reati di strada ma da scrivania, il pubblico ministero ha notizia dopo 3 o 4 anni, quel tempo non andrebbe calcolato. D’altra parte però devono essere fissati dei tempi di fase inderogabili: nel momento in cui la magistratura acquisisce la notizia, deve anche avere la responsabilità di procedere in modo da rispettare il principio della ragionevole durata del processo.

Quindi la prescrizione andrebbe scandita per fasi?

In qualche modo sì: si dovrebbe arrivare alla sentenza di primo grado, poniamo, in non più di 4 anni, alla pronuncia in appello in 2 anni al massimo e in un anno all’eventuale sentenza in Cassazione. Limiti chiari, che devono esserci anche rispetto al diritto all’oblio.

E in che modo?

Il legislatore dovrebbe appunto prevedere che non si instaura alcun procedimento in quei casi in cui il magistrato acquisisce notizia del reato quando ormai è trascorso troppo tempo dal momento in cui si presume sia stato commesso. Al di là dell’omicidio per il quale l’oblio non può mai intervenire, si potrebbe stabilire che non si parte nemmeno se la notizia del reato arriva quando sono trascorsi, dal suo presunto compimento, 15 anni per le fattispecie più gravi, 10 per quelle di media entità e 5 anni per i reati lievi.

Se però un processo per corruzione parte dopo 8 anni, poniamo, dal presunto reato, come si fa a non considerarli nella prescrizione?

So che l’avvocatura è in partenza contraria, ma invito a considerare che secondo la mia proposta a quel punto si dovrebbe inderogabilmente arrivare alla conclusione di ciascun grado di giudizio nel giro di pochi anni. È la magistratura che se ne assumerebbe la responsabilità. E questa costituisce un valore che resiste a ogni critica, anche mossa da chi, esterno alla giurisdizione, non le crede più.