Anche la mafia siciliana ha, come dire, il suo Picasso, meglio, il suo Doganiere Rousseau, ed è Gaspare Mutolo, già boss della Piana dei Colli. Questi, in verità, da molti anni collaboratore di giustizia, è ormai un pezzo unico di palermitano, un ex criminale che ha dirazzato, spezzando le regole e i codici di Cosa nostra. Proprio lui, Mutolo, già uomo d’onore della cosca, anzi, del mandamento di San Lorenzo Colli, territorio sconfinato che dal mare di Mondello incontra la Palazzina Cinese e lambisce infine il centro cittadino, compreso il suo salotto borghese. Trascorrere conversando un’ora con lui, da palermitano a palermitano, fatte salve le distinte biografie e le singole nature umane, significa ritrovarsi a sprofondare nel plancton cittadino più profondo, un’esperienza antropologica unica.

Del pittore Gaspare Mutolo è adesso in arrivo una mostra personale, proprio a Palermo, dal 15 al 29 ottobre, i suoi quadri troveranno ospitalità in un luogo- simbolo del presidio antimafia, cioè “Casa Borsellino”, quartiere della Magione, tra la Kalsa, lo Spasimo e i Quattro Canti.

Lo studio romano di Mutolo odora di olio e trementina, la sua quadreria scandisce e affastella nature morte e paesaggi, e ancora trionfi di fiori, l’orizzonte della spiaggia di Mondello, allegorie siciliane e infine, tra molto altro, un autoritratto “da giovane”, pettinatura fresca di barbiere e baffi portati con orgoglio sicano, posto che i siculi stanno invece a Catania. Mutolo racconta che, almeno inizialmente, i quadri li dipingeva per tal Luciano Liggio, signore corleonese in cima alla genealogia criminale, colui che ha messo al mondo dell’organigramma di mafia sia i Riina e sia i Provenzano, suoi attendenti, pronti a farsi strada da soli. Proprio loro, “i viddrani”, i corleonesi, cercheranno perfino di sostituirsi alla mafia cittadina, “palermitana” degli Inzerillo e dei Bontade in un’escalation di piombo, sangue e corda per incaprettare, senza pietà neppure per donne e bambini.

E’ il 1982 quando, per la prima volta, Mutolo mette mano ai colori a olio, diventa pittore per Liggio, suggerisce al boss con cui condivide la cella di abbandonare la lettura di Socrate e Aristotele per dedicarsi proprio a dipingere, in realtà, come si è detto, i quadri li realizzava Gaspare, alla fine li farà soltanto per sé. Sempre in carcere Mutolo conoscerà un ex componente della banda di Salvatore Giuliano, l’uo- mo del destino che lo farà esordire in una galleria d’arte, nasce così il pittore, alla firma “Liggio” si sostituisce il cognome “Mutolo”. Racconta che non c’è carcere dove non abbia avuto con sé cavalletto tele e colori, perché, parole sue, «la pittura è la mia malattia, non ne posso fare a meno, poi è arrivata anche la fede religiosa». Se proviamo a domandargli quanto questa, cioè la fede, abbia inciso nel suo immaginario, Mutolo accenna subito al dolore per la perdita della moglie, poi si racconta nei giorni dell’incontro con Giovanni Falcone, perché, sempre parole sue, «Io sono stato uno di quelli che hanno dato una spinta decisiva al cambiamento, così dopo la collaborazione dei Buscetta, dei Marino Mannoia e dei Contorno, il mio è stato come un richiamo» . Quando Mutolo racconta, sembra che stia allestendo con parole, gesti, smorfie, una propria opera dei pupi che presto diventa un teatro della storia di mafia dove, accanto al racconto della Palermo criminale, appaiono come fondale ora la Piana dei Colli ora la nostalgia per il mare e la spiaggia, tutto ciò in ordine sparso eppure ordinato e composto sulla tela. Compreso il racconto delle guerre “di mafia”, la prima e la seconda, anche se, sempre parole sue, «è sbagliato parlare di guerra, perché in verità noi palermitani siamo stati aggrediti, visto che Riina e i suoi avevano un solo progetto, volevano comandare, io secondo lui dovevo tradire Rosario Riccobono…».

Tutto vero, Gaspare Mutolo nasce mafioso, veri tutti i nomi del suo racconto, infine, da collaboratore di giustizia, ecco che si scopre artista, pittore, una via di fuga da ogni carriera criminale, un bisogno, la sua nuova droga, posto che l’uomo, tra i molti capi d’imputazione, vantava anche il traffico internazionale di stupefacenti. D’altronde, senza fare ricorso a una scontata metafora, all’interno dei suoi pennelli risiede, almeno potenzialmente, l’universo, si mostrano i tetti delle case di Palermo, sui quali sembra farsi strada “la piovra” mafiosa, l’allegoria della Trinacria con le toghe dei giudici, i coltelli, e poi i gabbiani e le rondini, le ruote dei carretti, e anche i pini mediterranei delle ville romane, città che lo ha visto residente, poi nuovamente la sagoma del promontorio di Monte Pellegrino che s’affaccia sul mare della sua città, le mani della nipotina Lulù, la cella e ancora i pennelli in primo piano accanto ai quadri lì dipinti, memoria del carcere che ritorna.

Mutolo ha iniziato a dipingere nello spazio ristretto delle carceri, in cella. Ciononostante proprio lì ha ritrovato il tempo e le figure della Sicilia quotidiana e della sua Palermo. Forse perfino come esercizio di sopravvivenza. Tecnicamente parlando, in senso stretto, l’uomo persegue una pittura istintiva, scarna, come quella dei pittori dei car- retti, quasi che il Doganiere Rousseau, l’artista che piaceva molto a Picasso e a Gauguin, forse perché si inventava di volta in volta i colori e le proporzioni delle cose, delle case, delle figure, della stessa giungla con la sua flora, abbia trovato un allievo in Sicilia. L’estro e la fantasia infatti non mancano all’ex mafioso Gaspare Mutolo, insieme al senso del racconto per immagini.

Così il mondo che Mutolo fa scivolare dal pennello sulla tela, nonostante giunga dal vissuto autobiografico, è un mondo immaginario: una Sicilia sognata, ricomposta attraverso la colla a presa rapida della memoria, d’altronde anche Elio Vittorini in “Conversazione in Sicilia” mette al mondo un’isola non meno trasfigurata. Come i maestri “naif”, infatti, Gaspare arriva alla sostanza delle cose che sceglie di restituire, dove altri, tecnicamente più bravi di lui, magari non riescono mai.

C’è un quadro che lo raffigura sul molo della piazza del paese di Mondello che molto bene racconta la sua nostalgia: Mutolo appare davanti alla ringhiera che lo separa dal mare, alle sue spalle, immancabile, Monte Pellegrino, l’orizzonte serale della spiaggia, in mano il gelato, dove il sogno è quello del ritorno, nel luogo dove tutto ha avuto inizio, la Sicilia, Palermo, ciò che uno scrittore chiamato Sciascia riteneva “irredimibile”.