Un giorno nero, tragico. Il 18 maggio 2015. Antonio Ciontoli ha una pistola tra le mani. Scherza. Di fronte a lui il fidanzato di sua figlia Martina, Marco Vannini, 20 anni, quel giorno ospite a casa dei Ciontoli a Ladispoli. Antonio si rigira la pistola, dicono le ricostruzioni, non si accorge che è carica e parte un colpo. Sarà mortale per Marco, colpito al braccio e trapassato nel cuore. Ma ci saranno anche 3 ore di agonia, in cui forse si sarebbe potuto evitare la tragedia: Antonio e i suoi familiari sono stati accusati dal pm Alessandra D’Amore di “aver ritardato i soccorsi e aver fornito agli operatori del 118 informazioni false e fuorvianti così cagionando, accettando il rischio, il decesso del ragazzo”. Lo scorso 18 aprile è arrivata la sentenza di primo grado della Corte d’assise di Roma, composta da due giudici togati e sei popolari, che ha condannato Ciontoli a 14 anni di reclusione per omicidio volontario con dolo eventuale, e a tre anni, per omicidio colposo, la moglie Maria e i figli Martina e Federico. Assolta la fidanzata di quest’ultimo, Viola Giorgini. La disperata, terribile disgrazia è finita in tv, in tutti i talk show possibili. Contro la famiglia Ciontoli si è scatenato un uragano di odio, di violenza, offese. E tra le due cose, l’esposizione mediatica e la caccia alla famiglia colpevole, il nesso è chiaro. Non sta a chi scrive sostituirsi ai giudici ed emettere una sentenza sui drammatici fatti di quella notte, immedesimarsi con i sentimenti di due genitori - Marina e Valerio - che hanno perso il loro unico figlio così prematuramente. Né si pretende di giustificare o condannare le azioni o le omissioni della famiglia Ciontoli. C’è invece il dovere di raccontare la storia osservata da ogni possibile sguardo. Oggi lo facciamo con una intervista esclusiva al signor Antonio Ciontoli, sottufficiale di Marina, già capo nucleo della segreteria particolare del Capo di Stato maggiore della Difesa e dipendente dell’Aise. Ciontoli ha deciso di parlare per la prima e unica volta proprio con il Dubbio. Racconterà la sua versione. E soprattutto ci descriverà i danni subìti dal processo mediatico che si è tenuto non nell’aula del processo ma dinanzi a un tribunale del popolo, in parte virtuale. I Ciontoli hanno dovuto lasciare la casa in cui avevano sempre vissuto, sono stati costretti a spostarsi perché per strada la gente li insultava. Davanti all’ingresso dell’abitazione sono comparse scritte che vanno dall’appellativo di “assassini” in poi. Martina Ciontoli ha perso diversi lavori, dopo essere stata sotto l’assedio dei cronisti: a volte è stata mandata via da superiori che non sopportavano più i piantonamenti della stampa, altre volte è stato il pregiudizio degli stessi datori di lavoro a compromettere possibili impieghi. Ma oltre a questo, oltre ad un proiettile arrivato con una lettera anonima indirizzata al capo famiglia, si è scatenata in rete una ferocia inaudita: “Se la giustizia non fa il suo corso, avrei fatto trascorrere a quel bastardo quei pochi anni di carcere piangendo i suoi 2 figli fatti a pezzi”; “ma le persone allora si devono farsi giustizia da soli? È chiaro che sia un si”; o ancora “bidone di acido tutti dentro”, “vi farei campare con i piedi legati e la bocca semi aperta, e a calci due ore al giorno”, “andrebbe stuprata la figlia e storpiato a vita il padre, luridi infami”. La rappresentazione fatta della famiglia Ciontoli in molte trasmissioni Rai e Mediaset e su varie riviste è stata per quasi sempre a senso unico, senza alcuno spazio per le tesi difensive. Qui si vuole provare a riequilibrare la situazione. Signor Ciontoli come mai ha deciso di rilasciare questa intervista? Fino ad ora, nonostante le tante sollecitazioni ricevute, abbiamo scelto di non parlare con la stampa per rispettare la famiglia di Marco e anche il giusto processo. Abbiamo sempre ritenuto che fosse irrispettoso nei confronti di una istituzione, come quella della giustizia, usare i media per rendere pubbliche le proprie ragioni. Ora una sentenza è arrivata e ho scelto il vostro giornale per provare a dire quello che anche noi proviamo. Qual è la prima cosa che desidera dire? Il mio primo pensiero e le mie prime parole vanno all’amatissimo Marco, e ai suoi genitori Marina e Valerio. Chiedo loro la possibilità di perdonarmi. Oggi può sembrare un’utopia a causa del dolore che ho a loro provocato. Ma io, così come tutta la mia famiglia e Viola, perseguirò questo obiettivo perché ho il fortissimo desiderio di poterli abbracciare e poterci unire alle loro sofferenze, al loro fortissimo dolore. A prescindere da quello che la giustizia determinerà, c’è un aspetto morale a cui non possiamo sottrarci e un profondo dolore anche per noi e soprattutto per me che sono responsabile per questa tragedia. Sin dall’inizio abbiamo provato a parlare con loro, abbiamo provato in vari modi ad avvicinarci a loro, tant’è che Martina nei giorni successivi è andata fuori casa loro, implorandoli di darle la possibilità di poterli abbracciare, senza riuscirci. Hanno comprensibilmente chiuso tutte le porte. A quel punto, abbiamo capito che forse il silenzio era il modo migliore per rispettarli. La madre di Marco in ogni sede e con toni molto duri pretende giustizia, quella vera a suo dire. Lei cosa prova a sentire quelle parole? L’unico sentimento che sento quando vedo Marina e Valerio disperarsi per questa tragedia immane è quello di poter stare loro vicino. Non ci sono parole di conforto che possano alleviare l’incommensurabile dolore che si prova alla perdita di un figlio. Le parole non riesco a trovarle e forse non le troverò mai perché non ci sono. Le condanne per i suoi familiari sono più lievi perché si erano fidati di Lei che come capo famiglia li aveva rassicurati. Io sono vittima di me stesso perché io stesso mi sono fidato di me, sbagliando. Ed ecco il nocciolo. Nelle prime fasi ero talmente sconvolto che non riuscivo a spiegarmi cosa fosse successo. Ho pagato per la troppa sicurezza che nulla potesse accadere. Ero convintissimo che non era così grave la situazione di Marco. Io non avrei mai pensato che Marco fosse in pericolo di vita perché per me il proiettile era nel braccio. I miei comportamenti successivi sono stati solo ed esclusivamente dovuti a questa consapevolezza, ossia che nulla stesse accadendo e che sarei riuscito a gestirla, sbagliando. Sono vittima del mio errore, e ho distrutto la vita di tante persone.
La tragedia ha creato un notevole clamore mediatico che tuttora fa sentire il suo peso sulle vostre vite. Parto dall’assunto che il ‘diritto di cronaca e di critica’ è riconosciuto dalla Costituzione e, quindi, sono cosciente che le notizie devono essere, necessariamente, ricercate, scovate, acquisite. Tuttavia, è altrettanto vero che l’esercizio dello stesso ha dei limiti dettati dalla coesistenza con il diritto di ogni persona alla privacy, alla dignità, all’onore, alla difesa, ugualmente tutelato dalla medesima Costituzione. Invece, dal momento che il nostro caso giudiziario è divenuto di dominio pubblico io e i miei familiari abbiamo perso tutti i diritti, sacrificati dai media in favore dell’’informazione’. È come se fossimo diventati proprietà di tutti, come se su di noi tutto si potesse dire e fare.  Siamo costantemente sottoposti a pubblico giudizio da parte di giornali e trasmissioni.  Oltre al legittimo processo in corso in Tribunale, si sta svolgendo quello ‘mediatico’ con la differenza che in aula ho sempre presenziato, come è giusto che sia, mentre per il secondo, ho rifiutato qualsiasi apparizione, scegliendo il silenzio come ho spiegato prima. Purtroppo questa scelta è stata sfruttata dagli untori dell’informazione che, perseguendo una linea colpevolista e giustizialista a prescindere, hanno scientemente creato e alimentato lo “sciacallaggio mediatico” che fomenta barbare ripercussioni, anche sui social network dove sono tantissimi i messaggi e tutti di una violenza inaudita, tutti dettati dalla sete di vendetta. Questa categoria di giornalisti e lo sciame di pseudo professionisti o opinionisti, che con la loro parzialità incitano alla violenza, si sostituiscono ai giudici ed emanano sentenze mediatiche, dovrebbero, coscientemente, esprimere le proprie opinioni in maniera responsabile, perché condizionano le persone ad andare oltre lo schermo di un computer per esternare la loro rabbia. Il sentimento di vendetta potrebbe essersi insinuato nelle menti più influenzabili come un virus, spingendo qualcuno ad andare oltre le parole e compiere atti estremi, così da diventare un ‘eroe’ agli occhi del popolo forcaiolo del web. In questa sede evito di descriverLe tutte le bugie, inesattezze, falsità dette e scritte da chicchessia (servirebbero decine di pagine), però, per inciso, affermo, non per puro istinto di sopravvivenza ma con dati certi alla mano (qualora ce ne fosse bisogno) e, quindi, senza presunzione o  pericolo di alcuna smentita,  che le stesse non hanno svelato alcuna ‘verità nascosta’ né apportato la benché minima ‘prova’ eventualmente sfuggita agli investigatori, bensì, hanno originato ‘un giustizialismo viscerale’ che ha costretto me, mia moglie, i miei figli e Viola a vivere separati e nella paura più totale di ritorsioni e atti estremi, come già accaduto in passato in altri casi di cronaca, in quanto siamo continuamente oggetto di minacce di morte. Il livello di odio nei nostri confronti è tale che ad oggi ci hanno trasformato in ‘Zombie Sociali’. A tal riguardo, esclusivamente per darle la possibilità di valutare se io stia esagerando o meno, la invito a guardare alcuni programmi televisivi e giornali, in particolare: nel corso di alcune puntate di “Chi l’ha visto?” hanno parlato, senza alcun riscontro, dell’esistenza di un telefono segreto, di testimoni che avrebbero segnalato la mia presenza sull’Aurelia dove avrei sfrecciato con l’auto a 200 km orari (a tal riguardo la Sciarelli fece un appello alle signorine sull’Aurelia – penso si riferisse alle prostitute – chiedendo loro di chiamare in trasmissione se avevano informazioni). La giornalista Liviana Greoli che trova un bossolo nella strada parallela di casa mia lo preleva personalmente e lo consegna a Roberto Carlini, lo zio di Marco, anziché attivare le autorità competenti. La rivista Giallo per tre anni ha scritto solo falsità, come la presenza di un testimone che la sera dell’accaduto avrebbe sentito più spari, o testimoni che confermano che quella maledetta sera avrebbero visto uscire da casa mia due persone. Nel corso di una puntata de “La vita in diretta”, Don Bruno Fasani – stiamo parlando quindi di un sacerdote, ministro della chiesa che nella sua missione di vita dovrebbe predicare misericordia e perdono -  mi ha dato del criminale e descritto la mia famiglia come una associazione a delinquere. Durante alcune puntate di “Quarto Grado” hanno paragonato la mia famiglia ad un “Covo di Vipere”, facendo campeggiare quest’espressione nello studio a caratteri cubitali; usato espressioni del tipo ‘Arrendetevi siete circondati’, ‘e spero che non ci sia giustizia per loro, ci deve essere vendetta’; mandato in onda l’intervista effettuata da Anna Boiardi ad un ‘testimone’ che, rimanendo anonimo e di spalle, riferiva un episodio in cui sarebbe stato minacciato da me con la pistola; trasmetteva un video, ripreso con un cellulare, della seduta di laurea di mia figlia Martina, foto di lei  mentre espletava il suo lavoro di infermiera, in entrambi i casi veniva derisa dagli opinionisti del predetto programma, in particolare dalla signora Grazia Longo, secondo i quali lei sembra non meritare o aver diritto a nulla. Più volte hanno affermato che Martina all’epoca dei fatti era infermiera professionale ed essendo tale doveva capire. Falso, perché in quella data Martina aveva 19 anni e aveva fatto solo due esami. Non per ultimo pochi giorni fa Federico e Viola sono stati pedinati e inseguiti dalla giornalista Chiara Ingrosso.[GUARDA IL VIDEO]. Infine in una puntata de “Le Iene” è stato mandato in onda un servizio di Giulio Golia che dopo essersi appostato con la sua troupe per svariati giorni fuori la sede dove mia figlia Martina lavorava, l’ha pedinata e inseguita. Perché questi giornalisti perseverano nella ricerca spasmodica di un’intervista considerato che da sempre abbiamo detto di non voler rilasciare alcuna dichiarazione? Tantomeno credo che tutti i tentativi fatti, in modo persecutorio, siano stati attuati per la ricerca della verità e della giustizia! È innegabile che certe affermazioni e comportamenti abbiano un effetto devastante, ancor di più se attuati da un personaggio pubblico che, grazie al proprio lavoro, ha disponibile, come cassa di risonanza, la televisione o la carta stampata. Il giornalista esercita il proprio ruolo h24, quindi anche quando parla da ‘privato cittadino’ ha il dovere, civile e morale, di essere sempre imparziale ed equilibrato nelle espressioni, soprattutto se è popolare. Per mio conto, mi sono rivolto, attraverso i canali ufficiali, alle autorità competenti, a seconda del contesto da segnalare (Autorità Giudiziaria, Garante delle Comunicazioni, Garante della Privacy, AGCOM, ordine dei giornalisti locale e nazionale e, dulcis in fundo, anche al Ministro della Giustizia). Il risultato? Nulla, anzi tali azioni hanno scatenato ancora di più i professionisti dell’informazione ad inasprire i toni dei loro interventi. Evidentemente, tali propalazioni sono la diretta conseguenza della pochezza e della mediocrità di una società civile che si nutre, avidamente, di gossip, cronaca nera, tragedie e del teatrino che si allestisce intorno, il tutto incoraggiato dall’inerzia delle autorità che hanno l’obbligo di vigilare ed il dovere di far rispettare le regole.
Secondo lei ciò è riuscito ad influenzare i giudici? A questa domanda preferiscono non rispondere, continuando con il silenzio a rispettare il lavoro della Magistratura. Cosa pensa della sentenza che la condanna a 14 anni di carcere? Io l’ergastolo l’ho già sulle spalle, nessuna sentenza potrà punirmi se non solo materialmente. L’unico scopo della mia vita ora è quello di poter stare vicino ai miei familiari, a Viola e alla sua famiglia che sono vittime di me stesso. E poi, come già detto, continuare a desiderare un piccolo segnale da parte dei genitori del povero Marco, per poter stare vicino alla loro sofferenza e unirci al loro immenso dolore. Tanti la accusano per aver pensato solo a se stesso in quelle fasi, chiedendo ai medici di non menzionare il proiettile, altrimenti avrebbe perso il suo posto di lavoro. In quei momenti ho pensato di tutto, anche al mio lavoro, e anche al concorso che Marco avrebbe dovuto fare dopo due mesi dall’accaduto. Io ho accompagnato Marco in tanti concorsi perché lui voleva fare il militare, il suo sogno era fare il pilota. Doveva fare delle visite mediche e ho pensato anche a questo: una ferita al braccio avrebbe potuto compromettere l’ammissione al concorso. In quei momenti ho pensato ad un migliaio di cose. Le condizioni di Marco erano asintomatiche e ciò ha indotto in errore anche i sanitari del pronto soccorso. Se, come dicono tutti, fossi stato cosciente del fatto che Marco stava morendo la prima cosa che avrei fatto sarebbe stata proprio quella di salvarlo da subito. Invece per me le sue condizioni non erano gravi. In particolare Lei come sta? Io devo e voglio pagare per ciò che ho commesso ma rifiuto con tutte le mie forze l’etichetta di mostri che ci hanno appiccicato ‘persone’ che, celandosi dietro il diritto/dovere di cronaca, stanno sfruttando la tragedia solo per ritagliarsi uno squarcio di visibilità e lo share televisivo. Su di me pesa una responsabilità enorme. Ora sto andando avanti con gli psicofarmaci, la psicanalisi e con l’amore della mia famiglia. Non sono né un assassino, né un criminale, né un delinquente. Io sono una persona normalissima che ha fatto un errore e per questo sta pagando e pagherà per tutta la sua vita, fino a quando Dio mi darà la forza di continuare ad amare, fino al mio ultimo respiro. Lei crede nella giustizia? Assolutamente sì. Per 30 anni vi ho lavorato. Voglio rimanere fiducioso. Però sarei pronto ad andare in carcere anche oggi. Parlo per quello che sento, di voler pagare il giusto ed espiare la mia pena a livello di giustizia. Anche 14 anni? Assolutamente no. Mi addebitano la volontà di aver fatto morire Marco. Questo è inaccettabile. Marco per me e mia moglie era come un figlio ed era il ragazzo che mia figlia Martina amava, e che sempre ameremo. Marco manca tantissimo anche a noi. Ma questo Marina e Valerio lo sanno benissimo come sanno benissimo che noi li continueremo ad amare. Per finire, mi conceda una intima riflessione: io sono già proiettato oltre a tutto ciò, conscio che quando si spegneranno i riflettori rimarrà solo il dolore lacerante a cui ho condannato, per il resto dei giorni a venire, i genitori in primis e tutte le persone che amano l’Angelo “Marco” per il vuoto incolmabile che ha lasciato. Resterà solo il rimorso e la consapevolezza di quanto di bello Marco è stato, di quanto ancora avrebbe potuto e dovuto essere ma che per quell’errore, per quella colpa, non sarà.