Sembra passata un’eternità da quando a Venezia studenti, registi e intellettuali occupano la sala Volpi al grido di “mostra libera” e “il cinema al popolo”. Oggi la discussione è se ci sia troppo o poco mercato, oppure se il cinema tradizionale sia obsoleto rispetto alla serie tv. E se un attore come Michele Riondino – padrino del festival – osa dire qualcosa contro Matteo Salvini viene subito bollato come “out”.

Cinquant’anni fa il Sessantotto arriva anche al Lido chiedendo un cambiamento radicale dello statuto e della direzione verticistica. Alla guida c’è un vecchio regista come Luigi Chiarini incapace di capire lo spirito che anima i giovani e gli autori anche già affermati. Qualche mese prima c’era stato il festival di Cannes. Lì le contestazioni sono ancora più dure. Dopo qualche giorno dall’inizio della manifestazione, gli studenti occupano le sale dove si proiettano i film bloccandone la visione. Ma non sono soli. Con loro si schiera il meglio del cinema francese. A dire no allo status quo anche a Cannes, in sintonia con quanto avviene a Parigi, ci sono Jean Luc Godard, Francois Truffaut, Roman Polanski, Luis Malle.

C’è il cuore del movimento della Nouvelle Vague che all’inizio degli anni Sessanta rivolta come un calzino stile, contenuti, modalità della settima arte. Il prestigioso festival francese finisce senza che molti film vengano proiettati, senza che venga attribuito il “palmares” e con un nuova sezione, ancora oggi la più prestigiosa, quella della Quinzaine des réalisateurs. Quando la direzione decide comunque di continuare, tre membri della giuria si dimettono, tra di loro c’è anche la nostra Monica Vitti.

Dopo qualche mese il palcoscenico è quello di Venezia. Il festival, nato durante il fascismo, conserva ancora la struttura impressa dalle politiche culturali del Ventennio. E i registi italiani non possono essere a meno dei cugini francesi. Prima di arrivare al Lido c’è una discussione anche aspra sui giornali tra le diverse anime del cinema italiano. Non tutti sono d’accordo che si debba mettere in scena una protesta. Quell’anno i film selezionati sono di per sé “rivoluzionari” e questo sarebbe dovuto bastare a far soffiare il vento della ribellione anche alla Biennale. Tra i contrari alle proteste, c’è Pier Paolo Pasolini che deve partecipare alla Mostra con il film scandalo Teorema.

Pasolini vuole a tutti i costi essere in gara, anche perché spera di vincere. A luglio su Paese sera scrive un duro articolo in cui critica la scelta di manifestare già annunciata dall’Anac, l’associazione che tutt’ora rappresenta i registi italiani. Pasolini non è d’accordo che si fermino le proiezioni, ma è favorevole a un mutamento della struttura verticistica della cabina di comando. Quando inizia il festival, davanti alle prime proteste, il grande regista e poeta cambia idea e fino all’ultimo resta tra i più forti contestatori. Il film Teorema viene proiettato contro la sua volontà e prima di andare nelle sale passa al vaglio di un processo perché considerato osceno. Ma questa è ( quasi) un’altra storia. Pasolini in quel ’ 68 è in prima linea, convinto che la Mostra così come è sia da abolire. Non sta dalla parte della polizia, ma di chi manifesta. Il 25 agosto giorno fissato per l’inizio della kermesse arriva un rinvio del direttore Chiarini che appare come una sua sconfitta. Non è così. Il giorno dopo studenti e registi occupano la Sala Volpi al Palazzo del cinema, ma vengono sgomberati e il fronte della protesta si sgretola. I registi però organizzano un contro festival. Sono tanti gli autori che in quei giorni ci mettono la faccia: vogliono che l’industria del cinema cambi al pari della società, della scuola, della famiglia. Pasolini chiede che si crei una canale di distribuzione non controllato dal mercato, in tanti vogliono che le proiezioni del Festival non siano aperte ai giornalisti. Esattamente il contrario di quello che accade oggi: che pur di avere i giornalisti in sala si è disposti a tutto. In prima linea, quell’estate al Lido, ci sono Citto Maselli, Bernardo Bertolucci, Gillo Pontecorvo, Marco Ferreri, Ugo Gregoretti, Liliana Cavani.

Il critico Steve Della Casa ha intervistato i protagonisti di quelle giornate all’interno di un documentario che è stato proiettato alla mostra di Venezia dieci anni fa, in occasione del quarantennale. Non sono mancate le critiche. Secondo Maselli l’opera non restituisce il clima di cambiamento, di entusiasmo, di lotta. Della Casa si è difeso dicendo che lui ha solo dato voce a chi aveva vissuto quell’esperienza, sarebbe toccato a loro trasmettere quell’entusiasmo. Qualsiasi cosa si pensi, quella è stata una pagina importante per il cinema e più in generale per la cultura del nostro Paese. Ma anche questo è un giudizio di parte. Ciò che forse bisogna ricordare per capire cosa fu il ’ 68 a Venezia è che il cinema, più di altre arti, è fortemente connesso con la società. Lo è stato 50 anni fa sulla spinta del movimento degli studenti e degli operai, ma lo è fin dall’esordio, quando il cinema nasce come fenomeno legato alle macchine e all’industria. Ogni film va giudicato in quanto film, ma è impossibile isolarne il valore, mettendolo su un piedistallo. Il cinema si è sempre sporcato le mani non solo per passione, ma per “natura”, perché nato con l’ambizione di catturare il reale impresso sulla pellicola. Non è tempo di un nuovo Sessantotto, ma inutile auspicarne purezza o distanza dalla realtà: il cinema sulle barricate c’è sempre stato.