La pubblicazione del J’accuse ha l’effetto di una bomba sociale.

Finalmente le coscienze, assopite, sembrano risvegliarsi non solo in Francia, ma in tutta Europa. Ci si divide fra dreyfusardi e antidreyfusardi senza ritegno alcuno, ma con accanimento tanto maggiore quanto più la propria posizione fosse in vista.

Si ruppero amicizie decennali, si separarono coniugi e famiglie, si litigò nei pubblici locali e nelle dimore private, ci si sfidò a duello, si minacciò da varie nazioni europee di non partecipare alla Esposizione Universale, prevista a Parigi, all’ombra della torre Eiffel, per l’anno 1900.

Insomma, lo scandalo della condanna di Dreyfus divenne di portata europea e perfino mondiale, se è vero che perfino alla Casa Bianca e al Cremlino si dibatteva della sua innocenza o colpevolezza.

Era inevitabile peraltro che, in forza dello spostamento mimetico tipico delle persecuzioni, una volta che il meccanismo persecutorio sia svelato, la violenza si converta a carico del rivelatore, cioè di Zola.

Questi infatti viene processato per diffamazione dei vertici militari e governativi e dei giudici militari e, in seguito, dei periti calligrafi i quali, mentendo, attestarono che la grafia del bordereau spionistico che fu attribuito a Dreyfus, era effettivamente la sua. Quella che oggi si pubblica è l’autodifesa pronunciata da Zola davanti alla giuria che l’avrebbe comunque condannato a un anno di reclusione e a 3.000 franchi di multa. Lo scrittore denuncia subito una evidente forzatura, tanto inammissibile quanto antigiuridica, vale a dire che il Primo Ministro, Felix Jules Méline, ha dichiarato di aver fiducia in quei giudici popolari davanti ai quali Zola si difende e ai quali egli affida pubblicamente la difesa dell’esercito.

Come dire che egli, il Primo Ministro, si attende una esemplare condanna di Zola, attraverso la quale soltanto l’esercito potrà essere ristorato del danno alla sua immagine prodotto dal J’accuse.

Zola nota subito che se per un verso ciò costituisce una indebita pressione sull’organo giudicante, per altro verso è una colossale sciocchezza. Infatti, accusare alcuni componenti dell’esercito, sia pure di alto grado, ma nominativamente individuati, di aver consumato un infame delitto ai danni di Dreyfus – come appunto ha fatto Zola - non vuol dire certo denigrare l’esercito nel suo insieme; anzi, è un sicuro indice di voler operare all’interno dell’esercito un salutare repulisti, allo scopo non di diffamarlo, ma di valorizzarlo nelle sue componenti più vere e trasparenti. Come non rilevare qui una singolare coincidenza con alcuni casi italiani, soprattutto degli ultimi anni?

Capita infatti che se un giornalista o un osservatore politico critichi pubblicamente – ed anche duramente – l’operato di un pubblico ministero, immediatamente salti su il Consiglio Superiore della Magistratura, lamentando che quelle critiche delegittimano l’intera Magistratura e aprendo perfino un fascicolo che vien definito “a tutela”. E non si sa davvero a tutela di cosa e di chi, se non di ruoli e posizioni che in tal modo vengono posti al di là di ogni possibile critica, collocati in una dimensione di immunità assoluta, al punto che criticare uno significa delegittimare tutti: assurdità evidente sia per la ragione giuridica che per quella comune, perché conferisce licenza di fare e disfare arbitrariamente proprio a colui che invece andrebbe controllato, in quanto se ne lamenta un qualche abuso o errore ( a torto o a ragione).

Come dire che se l’insegnante richiama uno scolaro che disturba in classe, allora necessariamente delegittima la classe intera: un corto circuito dell’intelletto che però alligna in Italia ormai da decenni e che alla fine delegittima soltanto l’insegnante, riducendolo al silenzio.

Zola perciò sceglie di non difendersi per nulla: e coraggiosamente, perché sa bene che alte sono le probabilità di essere condannato, come poi in effetti sarà.

Egli si limita a rilevare come ormai, giunte a quel punto le cose, dopo che il vero colpevole, Esterhazy è stato assolto, il caso non riguarda più soltanto Dreyfus e la sua innocenza, ma riguarda la Francia intera e l’immagine che la Francia potrà fornire di se al mondo: è ancora la Francia dei diritti dell’uomo, “quella che ha donato la libertà al mondo e che doveva donargli la giustizia”?

Si noti che Zola risulta doppiamente sospetto alla opinione dei benpensanti. Da un lato, in quanto scrittore e perciò pericolosamente votato a pensare con la propria testa; dall’altro, in quanto di origine italiana, nato da padre veneziano. Ma lui se ne fa un vanto, osservando che da qualsiasi luogo provenga la sua famiglia – e proviene da Venezia, “la splendida città la cui antica gloria è cantata in tutte le memorie” – egli è un francese a tutti gli effetti, non foss’altro che per i quaranta volumi scritti in lingua francese e venduti in decine di milioni di copie in tutto il mondo.

La chiusa è profeticamente vera: “Un giorno la Francia mi ringrazierà di aver contribuito a salvare il suo onore”.

Non solo la Francia.