Se n’è andata a 76 anni dopo una lunga malattia nella sua casa di Detroit, un po’ dimenticata come ogni mito che si rispetti.

Nonostante 21 Grammy, 52 album, milioni di dischi venduti, l’onore di essere la prima donna a entrare nella Rock and Roll Hall of Fame nel 1987.

Icona del soul, e figura chiave del Novecento, in questo secondo millennio di stelline evanescenti Aretha Franklin ci stava forse un po’ stretta. Tant’è che l’anno scorso aveva annunciato l’addio alle scene. Troppo ingombrante, troppo leggenda. Troppo regina per condividere ancora con noi la sua voce e il suo tempo. Del resto The Queen of Soul ha avuto tutto, e l’ha avuto presto.

Abbandonata dalla madre a sei anni. Madre di due figli ( di cui uno perduto) lei stessa, appena sedicenne. E già star consumata delle scene e della vita appena adolescente, al seguito del padre predicatore battista. Fu così che la voce di Aretha Louise Franklin si rivelò al mondo. Nella piccola chiesa di Detroit dove il padre la volle per accompagnare al piano, e con la voce, le funzioni religiose insieme alle sorelle Carolyn ed Erma.

Dolce, ma anche rabbiosa, graffiante ma anche soave. Capace di salire sulle ottave più imprendibili, o di inabissarsi nelle note più basse con incredibile nitore. Aretha era già tutta lì, in quella che era la sua essenza: potente e leggiadra insieme, ammiccante ma ribelle: l’anima stessa del soul.

Eppure i primi passi nelle label che contano non sono incoraggianti. La Columbia le impone una cornice pop, nella quale Aretha si muove come una leonessa in gabbia. E così i primi cinque album fanno flop. Il treno per il successo arriva più avanti, a metà degli anni 60, quando la ingaggia l’Atlantic Records. È il tempo di I Never Loved a Man ( The Way I Love You) . Da lì in poi, Aretha piazza hit come se piovesse, album d’oro e di platino non si contano, tutti i singoli regolarmente nella top 100 della Billboard.

« Quando giunsi all’Atlantic mi fecero sedere al pianoforte ed i successi cominciarono ad arrivare» , raccontava la Franklin nel ricordare i tempi d’oro. Ma la verità è che quando Aretha cantava, di mezzo non c’era soltanto la musica, ma anche la politica e la storia.

Lasciata presto la scuola, senza una madre, a Detroit la piccola Aretha aveva subito il clima opprimente delle discriminazioni razziali.

Ma aveva deciso di tirar fuori gli artigli. Gli stessi che baluginano in Respect, vero manifesto femminista di una donna che non vuole più subire in silenzio il mondo, ma prenderlo a schiaffi. Di una donna afroamericana, che è donna quanto le altre, e decide di urlarlo al mondo con la voce più calda e profonda che si fosse mai rivelata in terr, in pietre miliari della musica contemporanea come Think, Chain of fools, o You Make Me Feel Like A Natural Woman.

Amica di Martin Luther King e attivista impegnata, organizzò insieme a lui la Marcia su Washington. Per poi piangerne la perdita in quel ’ 68, in cui i funerali di King fecero il giro del mondo, mentre la voce dolce di Aretha ne consacrava l’addio sulle note di Precious Lord.

Non si trattava solo di canzonette, quando la regina cantava. Ma di diritti negati, e di una voce nera che come una preghiera laica ha saputo unire milioni di afroamericani in un grido di ribellione che chiedeva dignità e rispetto dopo secoli di oppressione.

« Essere la regina – diceva - non significa solo cantare e diventare una diva. Ha molto a che fare con l’essere al servizio alle persone ».

Il perché fosse diventato un mito è tutto nella copertina che il Time le dedicò nel 1968, dove il volto imbronciato di The Queen appare a tutta pagina corredato da un semplice sostantivo: Singer Aretha Franklin.

Come a dire: la cantante per antonomasia. Quella che a colpi di note musicali, fa la storia del suo tempo.

La sua storia personale invece va avanti a strappi, tumultuosa come da tradizione familiare. Si lega a un uomo violento e alcolizzato, un matrimonio rapido e intenso. E la sua anima inquieta comincia a fare su e giù dall’ottovolante, man mano che la sua stella si appanna: chili che vanno e vengono in fretta, barili di alcol e sigarette a raffica. Gli anni 70 sono quelli di Spanish Harlem e Day Dreaming, ma il rapido incombere della disco music le toglie spazio. Lei però non si ferma, combatte, recupera.

Più tardi arrivano collaborazioni pregevoli, da George Benson a George Michael, e ancora il Super Bowl alla cerimonia di insediamento di Barack Obama nel 2009. Lo stesso onore che si rifiutò di concedere più di recente, in un ultimo graffio, al nuovo presidente Donald Trump.

Ci mancherà The Queen of Soul. Certamente. Ma non le sue note che invece resteranno immortali. « La musica – amava ripetere Aretha - fa un sacco di cose per molte persone. Ti trasporta, di sicuro. Può portarti indietro, anni fa, nel momento stesso in cui certe cose sono accadute nella tua vita».