L’irrompere di Paolo VI fu spettacolare e drammatico così come il dialogo con Dio che instaurò ad alta voce: un ardire senza precedenti, chi altri poteva permettersi un tale contraddittorio esplicito e diretto. La porta della sacrestia affianco all’altare maggiore si aprì come d’improvviso e Paolo VI apparve in una nuvola d’incenso, con le mani avvinghiate ai braccioli della sedia gestatoria, ondeggiando nel tragitto verso l’altare maggiore. Nella basilica di San Giovanni in Laterano si fece il silenzio assoluto quel 13 maggio 1978, ai funerali di Stato di Aldo Moro celebrati nonostante l’assenza dei familiari.

Nessuno poteva immaginarle quelle parole rivolte a Dio all’inizio della cerimonia: “Tu che non hai ascoltato la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di quest’uomo buono, mite, saggio, innocente e amico”. A destra e a sinistra dell’altare maggiore erano raccolti da un lato gli uomini delle istituzioni e della politica italiana, dall’altro i rappresentanti del corpo diplomatico. Decine di personalità che d’un tratto apparvero ridursi a indistinte comparse. Il centro della scena era solo Paolo VI, la sua figura ingigantita dalle parole che pronunciava con una voce roca e dolente: “Tu che non hai ascoltato …”, il suo osare davanti a Dio chiedendo conto del diniego alla supplica che lui, il pontefice, gli aveva rivolto.

Nella preghiera che aveva preparato chiamava Moro affettuosamente Aldo, implorava il conforto della pietà divina: “Fa che placato dalla virtù della tua croce il nostro cuore sappia perdonare l’oltraggio ingiusto e mortale inflitto a quest’uomo carissimo e a quelli che hanno subito la medesima morte crudele”. L’oltraggio ingiusto e mortale inflitto dagli “uomini delle brigate rosse”, ai quali il pontefice pochi giorni prima aveva rivolto un’altra preghiera straordinaria e inascoltata: la lettera di suo pugno con la quale chiedeva loro la liberazione senza condizioni dello statista rapito. Una lettera comparsa sui giornali del mondo intero.

Nel destino tragico di Moro, Paolo VI intuiva e raffigurava forse altro, la conclusione di una straordinaria vicenda personale e familiare. Il padre Giorgio era stato un deputato del Partito popolare di Luigi Sturzo, lui si era legato dagli anni giovanili alla nascente Democrazia cristiana di Alcide De Gasperi. Il giovane sacerdote Montini, prima assistente ecclesiastico della Fuci con Aldo Moro, poi sostituto alla Segreteria di Stato vaticana aveva sempre sostenuto il ritorno sulla scena del Paese del cattolicesimo politico dopo gli anni bui del fascismo.

Aveva la stessa visione laica della politica di Luigi Sturzo e partecipò attivamente alla resistenza nella Roma occupata dai nazisti fra il settembre del 1943 e il giugno del 1944. Sapeva bene che in casa di Giovanni Sangiorgi, suo amico, al quarto piano di via di Porta Angelica 31, davanti all’ingresso di Sant’Anna della Città del Vaticano, era la redazione clandestina del Popolo, dove gravitavano Alcide De Gasperi, Giorgio Gonella, Giuseppe Spataro, Giovanni Gronchi, Giulio Pastore, Mario Scelba e tanti altri.

I riscontri di questa militanza sono nei fascicoli della polizia politica all’Archivio di Stato, e iniziano da molti anni prima: il 10 ottobre 1939 si legge di monsignor Montini e Giovanni Sangiorgi … il 29 ottobre monsignor Montini a casa di Giovanni Sangiorgi incontra … Una lunga consuetudine di rapporti fino alla liberazione di Roma. I confidenti che seguivano Sangiorgi erano più d’uno, questo era in codice il numero 726. Il capo della polizia Bocchini aveva un libretto nel quale accanto ai numeri erano segnati i nomi dei confidenti. Venero poi pubblicati su una Gazzetta Ufficiale del luglio 1946. C’era di tutto, da devoti uomini di Chiesa a militanti dei partiti antifascisti.

Nel marzo 1944 Montini arriva a casa di Sangiorgi in compagnia di un altro sacerdote, monsignor Travia, che sarà poi elemosiniere pontificio. Alcuni contadini erano andati in Vaticano raccontando che lungo la via Ardeatina avevano sentito sparare per lunghe ore. Montini, Travia e mio padre decidono di andare a vedere e tornano sconvolti. Coprendosi il volto con le mani ebbero la stessa reazione: “Ci era sembrato di calpestare stracci, e invece erano i corpi degli uccisi, semisepolti sotto la terra nei cunicoli delle caverne fatte esplodere dopo l’eccidio”. Il Popolo clan- destino del 27 marzo, con il titolo Il massacro di 320 innocenti, dà una ricostruzione dei fatti ben diversa da quanto avevano scritto i giornali asserviti al regime dopo l’attentato di via Rasella. Solo il numero dei morti era dato per difetto: 320 contro i 335 passati per le armi.

Montini aveva un rapporto speciale con De Gasperi.

Nel cuore della notte tra il 19 e il 20 agosto 1954 la moglie di De Gasperi, Maria Francesca, telefona a Giovanni Sangiorgi: … “Il presidente è morto, lei è il primo a saperlo, domattina presto cerchi Montini …”. Se De Gasperi era il padre politico della Democrazia cristiana, il futuro Paolo VI ne era il padre spirituale. Dal 1948, dentro il Vaticano avevano combattuto insieme una durissima battaglia per evitare che nascesse in Italia un secondo partito cattolico di stampo conservatore. Appena appresa la notizia della morte, Montini scrive di getto una lettera a suor Lucia, primogenita dello statista: “La mia pena mi autorizza ad avvicinarmi alla sua. Nei confronti di suo padre in Italia e nel mondo ci sarà un’immensa eco di affetto, di ammirazione e di rimpianto”. Suor Lucia aveva preso i primi voti nel 1949, a officiare quel rito era stato Montini.

La morte di De Gasperi precede di pochi mesi la nomina di Montini ad arcivescovo di Milano. Pochi giorni prima di andare via si recò per un commiato in casa di Giovanni Sangiorgi, accompagnato dal futuro cardinale Dall’Acqua, consigliandolo di mantenere a Sangiorgi quel ruolo discreto e riservato di tramite tra la Democrazia Cristiana della quale era un dirigente e le gerarchie vaticane. Ma la morte di De Gasperi e l’allontanamento da Roma di Montini aprivano nuovi e diversi scenari di rapporti.

Ha nel cuore tutto questo passato Paolo VI quando celebra i funerali di Aldo Moro. Quanti anni sono trascorsi da quella indimenticabile stagione politica, anche se ora è il pastore della Chiesa universale. E’ succeduto a Giovanni XXIII il 21 giugno 1963, in uno dei conclavi più brevi della storia della Chiesa, con l’enorme compito di portare a termine il Concilio Vaticano II. Vi riuscirà, anche se la navigazione sarà spesso burrascosa tra le due anime del Concilio, quella tradizionalista e quella aperta alle istanze dei nuovi tempi. A dieci anni di distanza dalla fine del Concilio feci una inchiesta per trarne un bilancio. Intervistai tra gli altri il cardinale Pericle Felici, un illuminato conservatore, come lo era stato il cardinale Alfredo Ottaviani, il decano del Sacro Collegio che con il suo accento spiccatamente romano aveva annunciato a suo tempo l’elezione a pontefice di Montini: “Nuntio vobis gaudium magnum, habemus papam …”. Il cardinale Felici ascoltò le domande che gli ponevo e con un sorriso iniziò la sua risposta così: “Lei mi chiede un bilancio del Concilio Vaticano II dieci anni dopo. Lo sa che la Chiesa sta ancora discutendo gli effetti del Concilio di Trento di 400 anni fa? …”.

Felici ha scritto poi un saggio intitolato Concilio si Concilio no, nel quale ha difeso l’enciclica più discussa di Paolo VI, la Humanae Vitae del luglio 1968. Secondo Felici il papa non fece altro che riproporre le tesi conciliari in materia, così come erano state più volte discusse prima della loro formulazione finale, e dunque il suo divieto dell’uso dei contraccettivi nel matrimonio non avrebbe avuto nulla di oscurantista e di sorpassato, o di contrario alle aperture del Concilio.

Ma l’enciclica più celebrata e lungimirante di Montini resta la Populorum Progressio del 1967. È una enciclica direttamente collegata al filone sociale aperto da Leone XIII nel 1891 con la Rerum Novarum, ma è anche in anticipo di decenni la visione globale del fenomeno delle diseguaglianze tra i popoli e la necessità di superarle, una sorta di condensato dei fermenti teologici e pastorali che avevano animato il Concilio vaticano secondo. È il documento che più avvicina Paolo VI ai grandi padri della Chiesa, una sorta di premessa culturale della santità di questo pontefice che verrà definitivamente proclamata nell’ottobre 2018. Convinto assertore di una missione che non poteva non essere universale, fu poi Montini ad iniziare la grande stagione dei viaggi pontifici in tutti i continenti della terra.

Un Papa capace di grandi dolcezze ma anche di grande durezza quando lo riteneva necessario. Ne sa qualcosa la Compagnia di Gesù che da Paolo VI fu messa sotto accusa durante la XXXII Congregazione generale tenuta fra il 1974 e il 1975. Padre Arrupe, il generale della Compagnia, non dimenticò per il resto della vita quella lettera che Montini gli inviò il 15 febbraio 1975 perché contrario ad alcune scelte statutarie che i gesuiti avevano in animo di compiere: “Potrà la Chiesa confidare, come sempre, ancora in voi? Quale dovrà essere l’atteggiamento della gerarchia ecclesiastica verso la Compagnia? Come potrà essa affidarle con animo sgombro da timori la prosecuzione di compiti tanto importanti e tanto delicati”?

I gesuiti risposero riaffermando la loro più completa obbedienza, che affidarono alla mediazione di uno di loro, raffinato e sempre più ascoltato teologo e biblista, Carlo Maria Martini. Ma questa diventa un’altra storia, che riguarda un altro, futuro santo della Chiesa.