Figure iconiche di questa seconda decade del nuovo millennio, il rapper Liberato e il cantautore The André hanno attratto su di sé i riflettori dello star system nostrano, forti di un pervicace pulsione al nascondimento che nell’era dello streaming ininterrotto di se stessi, ne ha fatto due originali esempi di controcultura.

La celebrità raggiunta dai due performer si nutre infatti di un autentico paradosso: ad alimen- tarne la fama è la privazione di sé che essi offrono ai fan, in spregio a quella ostensione del corpo che appare oggi al contrario condizione ineludibile per veicolare la propria identità artistica. Il meccanismo si è rivelato in tutto il suo strapotere mediatico quando nel maggio scorso, Liberato, celebre rapper che con la sua Nove maggio ha totalizzato quasi 13,5 milioni di visualizzazioni su You-Tube, è sbarcato a sorpresa alla Rotonda Diaz di Napoli. Accompagnato da sei sosia incappucciati, che recavano impresso sulla felpa il nome stilizzato del cantante, l’uomo senza volto è stato assalito da 20mila fan, decisi a scoprirne una volta per tutte l’identità. Che però Liberato tiene a lasciare ben distinta dalla sua personalità musicale. «Come mai la scelta dell’anonimato? Lo fai per timidezza o c’è dietro una strategia?», gli chiede il giornalista nell’unica breve intervista sinora concessa. La risposta del giovane trapper è folgorante, e tutta in maiuscolo. «MA QUA’ STRATEGIA, JE VOGLIE SULE FA’ ‘ A MUSECA ( Ma quale strategia, io voglio solo fare musica)», replica infastidito. Come a dire che per fare musica, basta fare musica. E che il resto, proprio per lui che è uno dei re di YouTube, conta meno di niente.

Misteriosa anche l’identità di un’altra grande star del tubo internettiano come The André, piccolo fenomeno capace di far rivivere le canzoni del Faber, del quale ha importato il medesimo timbro applicato anche a innovative cover di canzoni trap. Di lui, sappiamo oggi soltanto che è originario del Friuli Venezia Giulia. E il segreto del suo successo, lo ha svelato lui stesso, in una delle rare interviste che ha sinora concesso. «Meno il pubblico si fa influenzare dal fatto che non ho la faccia di De André – annota il giovane youtuber - più sospende l’incredulità». Ed è in effetti incredibile e straniante, ascoltare The André. Perché è come ascoltare De André, ancora vivo, e ancora capace di assorbire i mood musicali contemporanei e di il suo stile inconfondibile. In questo senso, è proprio l’assenza del volto di The André, a rendere possibile l’esistenza in vita di De André.

Il nascondimento come rifugio per l’impossibile e il non plausibile. Un’intuizione apparentemente geniale, che però è antica come il mondo. O per lo meno quanto la maschera, che del nascondimento è la sineddoche visiva in quanto svela la presenza mediante una porzione di assenza.

Nella maschera non si cela infatti la semplice volontà di restare ignoti. Ma anche e soprattutto la volontà di autorappresentarsi come altro da sé. E in ultima istanza come persona. Difatti, se solo si volge un rapido sguardo che dalla maschera tragica greca giunge fino al cappuccio che oscura il volto di Liberato, si noterà che il travisamento dei propri connotati, altri non è che la cifra segreta sulla quale si regge ogni performance artistica, e in senso lato ogni performance umana.

Notava Schopenhauer, che «l’uso, comune a tutte le lingue europee, della parola persona per indicare l’individuo umano è, senza saperlo, pertinente: persona significa, infatti, la maschera di un attore, e in verità nessuno si fa vedere com’è; ognuno, invece, porta una maschera e recita una parte». In origine la “persona” non era altri che la maschera che ricopriva il volto “personale” dell’attore. Ed era attraverso di essa che gli spettatori riuscivano a comprendere quale fosse il ruolo dell’attore nel dramma. Non fosse che nel nascondimento, la maschera garantiva alla “persona” la possibilità di essere individuo. Di far risuonare, letteralmente, la sua voce, dall’apertura che si dispiegava all’altezza della bocca, e che era capace di amplificarne il tono a favore del pubblico. È questo il senso etimologico della parola “per- sona”, che vuol dire, appunto, “risuonare attraverso”.

Nella “persona” romana, intesa come qualunque cittadino fosse in possesso di diritti civili, vive dunque il riflesso spettacolare della funzione di ogni essere umano, che sul palco è plasticamente rappresentata di fronte alla platea- società. Una continuità concettuale, che già Hannah Arendt colse con parole assai lucide in un frammento assai prezioso di Responsabilità e giudizio: «Noi tutti appariamo sempre sul grande palcoscenico del mondo venendovi riconosciuti per il ruolo che la professione ci assegna e prescrive, in quanto medici o avvocati, autori o editori, insegnanti o studenti, e così via. Ma è attraverso questo ruolo che qualcosa di diverso si manifesta, o che qualcosa «risuona attraverso». Questo qualcosa è assolutamente idiosincratico e indefinibile, eppure è facilmente identificabile».

La maschera di Liberato, o meglio il mascheramento, come maschera della “persona” che si esprime nel personaggio. Non è forse questo lo stilema che accompagna la storia dei celebri eroi mascherati del ‘ 900 che trovano in Zorro uno dei capostipiti più amati? Ispirato all’avventuriero irlandese cattolico William Lamport, alias Guillén Lombardo, il celebre spadaccino deve ricorrere al travisamento, per esprimere la voce che “persuona” davvero nelle sue corde. Guillén è stato infatti una persona scomoda. Arruolatosi in uno dei reggimenti irlandesi al soldo degli spagnoli e poi esiliato da Filippo IV dopo aver messo incinta la nobildonna spagnola Anna de Leina – siamo nel Seicento - il futuro Zorro approda in Messico, dove inizia però a simpatizzare con gli schiavi indiani autoctoni, che supporterà con atti di coraggio come rivoluzionario anti- spagnolo al servizio della causa indipendentista.

È nei documenti dell’Inquisizione che possono leggersi dunque le vere radici di Zorro, che fa della maschera il vero supporto- sineddoche della sua “persona” altrimenti indicibile, non rappresentabile in un contesto sociale avverso. È in quelle polverose carte spagnole che ai primi del 900 lo sceneggiatore americano Johnston McCulley coglie in Lombardo l’essenza di una “persona” rivoluzionaria, che verrà poi eternata dal mitico personaggio de Il segno di Zorro ( 1920). Se la maschera dell’avventuriero- giustiziere ben rivela le pulsioni anti- imperialiste e anti- colonialiste maturate sin dai primi del Novecento, che fanno di eroi solitari le “persone” simbolo di battaglie collettive altrimenti impronunciabili, la maschera pirandelliana racconta al contrario quello smarrimento dell’individuo che è l’altra faccia del Novecento. Nel teatro e nella narrativa pirandelliana, il soggetto non è più una “persona” integra, perché indiperimetro vidua nella maschera lo stigma che la società gli calca addosso e che egli stesso si impone attraverso i propri ideali morali. È un dilemma a due corni, quello del mascheramento. Che si riduce in ogni caso a un’irredimibile sconfitta. Il personaggio che coglie la presenza della maschera sul suo volto non ha che da scegliere tra l’incoscienza e l’adeguamento inerte alle forme, o la consapevolezza che ne fa una maschera nuda, dolorosamente consapevole dei propri autoinganni. Che cos’è in fondo Il fu Mattia Pascal, se non la storia di una maschera nuda che sceglie di indossare un’altra maschera, ossia quella di Adriano Meis? Da strumento di affermazione individuale, utile a performare la propria “facies” autentica, la maschera pirandelliana diviene emblema del dramma che proprio come una maschera si appiccica addosso all’umanità. Perché l’essere vivo – è la tesi di Pirandello – dovrebbe di continuo uccidere la forma. Ma senza la forma, cioè la maschera, l’essere non può vivere.

Non può dunque esserci riconoscibilità, senza mascheramento. E non c’è mascheramento che non comporti umana sofferenza per la riconoscibilità che solo la maschera può assicurarle a garanzia della sua esistenza cosciente. Siamo di nuovo entro il rileggerli con di quel concetto ambivalente dal quale abbiamo preso le mosse, la maschera greca, poi romana, che Jung associa al ruolo. «Tutto sommato – annota lo psicologo - la Persona non è nulla di “reale”. È un compromesso fra l’individuo e la società su “ciò che uno appare”. L’individuo prende un nome, acquista un titolo, occupa un impiego, ed è questa o quella cosa. In un certo senso ciò è reale, ma in rapporto all’individualità del soggetto in questione è come una realtà secondaria, un mero compromesso, a cui talvolta altri partecipano ancor più di lui».

È tuttavia proprio all’inizio del terzo millennio, che il gioco di maschere denunciato da Luigi Pirandello perde ogni tipo di caratterizzazione. L’impressionante accelerazione tecnologica che irrompe nella società ai primi del duemila, abbatte infatti di colpo agli inizi del duemila gli schemi novecenteschi che sorreggevano il palco della società borghese ferocemente denunciata nella sua vacuità da Luigi Pirandello. Il trionfo conseguente del multinazionalismo, del turbocapitalismo, della tecnocrazia finanziaria spazzano via d’un tratto la classe media e i suoi valori di riferimento. L’agone politico vede in campo una sfida nuova ed inedita, che non contrappone più la destra alla sinistra, ma l’alto al basso. È proprio in questo contesto che la maschera, intesa come simbolo della conservazione della classe borghese, muta di nuovo la sua connotazione semantica. E riassume in sé la foggia simbolica della ribellione, da condursi però non più nelle piazze con atti virulenti ma in maniera sommessa e altrettanto dirompente nello spazio virtuale della società nuova: la rete. È proprio a tutela di internet e della sua vocazione libertaria, che nasce nel 2003 il collettivo di Anonymous. Che si impone sulle scene pubbliche grazie alla celebre maschera di V per Vendetta, sfoggiata dai suoi attivisti.

Il mascheramento dei componenti del gruppo, rivela tuttavia una caratteristica innovativa, che in qualche misura riscrive storia e funzioni della maschera. Qui non si tratta più di un travisamento individuale, che al contempo vela e svela la “persona”. Ma di un artificio collettivo, che vela e svela un’identità collettiva, i cui componenti non hanno spesso contatti reali tra loro, ma sono accomunati da una missione condivisa. «Anonymous – spiega il saggista Chris Landers - è la prima coscienza cosmica basata su Inter-maschera net, Anonymous è un gruppo, nello stesso senso in cui uno stormo di uccelli è un gruppo. Come si fa a sapere che è un gruppo? Perché viaggiano nella stessa direzione. In qualsiasi momento, più uccelli possono unirsi, lasciare lo stormo o staccarsi completamente verso un’altra direzione».

La direzione di Anonymous è in questo senso chiara e ben leggibile, nel binomio che ne caratterizza le azioni: “hacktivism” e “vigilantism”, attivismo e vigilanza sulla rete a difesa dell’equità sociale e della libertà di pensiero e di espressione, che non a caso preservano dalle incursioni informatiche i mezzi di informazione. Sono molte le azioni messe in campo dal collettivo di hacker in questi ultimi 15 anni.

Ma qui vale la pena ricordare per tutte l’incursione politicocibernetica che il gruppo elaborò in Iran nel 2009. Il 20 giugno di quell’anno, sulla pagina web principale del sito The Pirate Bay esponenti di Anonymous, invitarono a sostenere l’“Iranian Green Party”, un partito politico iraniano, di cui alcuni membri sono in esilio, che supporta valori ecologici e questioni come il sistema legale e i diritti dei gay. Un partito ferocemente combattuto dagli oppositori che facevano capo al presidente Ahmadinejad, trionfatore in un clima che sollevò dopo le elezioni fortissimi sospetti di brogli. In quel caso, il sito creato da Anonymous consentì di aggirare la censura della rete messa in atto da Teheran, con il risultato che migliaia di iraniani che parteciparono alle successive dimostrazioni di protesta, poterono veicolare il loro dissenso nel resto del mondo, e raccogliere adesioni alla loro causa: furono più di 22mila i sostenitori che si schierarono a fianco del Green Party.

La maschera collettiva di Anonymous, non è in fondo nient’altro che la Persona. La “persona” collettiva, che in tempi così liquidi e anonimizzanti, combatte ancora, come nell’antica tragedia greco- romana per esprimere la sua voce. Per “parlare attraverso” il diaframma del mondo, e svelarne la natura ingannevole. Quella che Schopenhauer, due secoli fa, chiamava cumulo di «vetri sfaccettati». Nient’altro che «sogno, tessuto d’apparenze, una sorta d’incantesimo». La vita autentica come realistico artificio, che la maschera spezza nello stesso momento in cui decide di indossarne come un marchio rivelatore, la sua paradossale e infingarda natura.