Uno legge le notizie che arrivano dal Giappone, sente che hanno impiccato sette esseri umani, e rabbrividisce.

Però pensa: in fondo il nostro giustizialismo è molto migliore, si limita ad invocare qualche anno di prigione in più. Non è un modo per scherzare su cose sulle quali c’è niente da scherzare, ma per dire una verità indiscutibile. Governo, giustizia e avvocati è aperta una battaglia decisiva

Questo è un paese dove la tolleranza e il senso del diritto sono radicati molto profondamente, fanno parte dello spirito pubblico. Molto più che in altri paesi dell’Occidente. Anche in periodi difficilissimi, come questo che stiamo vivendo. E’ stato il paese di Beccaria e resta il paese di Beccaria. Nessuno, qui da noi, considera come una buona cosa la pena di morte o - peggio- la barbarie medievale dell’impiccagione.

Vogliamo fare qualche paragone con gli Stati Uniti? Beh - a parte la pena di morte - basta qualche cifra: negli Stati Uniti i detenuti sono circa 3 milioni, quasi uno ogni cento abitanti. Qui in Italia sono un po’ meno di sessantamila, cioè meno di uno ogni 1000 abitanti. La differenza è abissale: dieci volte.

Questo non vuol dire che negli Stati Uniti non esista lo Stato di diritto ( come una volta mi disse, credo paradossalmente, il grande scrittore americano Gore Vidal): esiste, ma ha molte crepe. E questo non vuol dire che da noi lo Stato di diritto sia al sicuro. Non lo è. Spesso viene violato ( basta pensare alle condizioni di vita nlle carceri, alla detenzione preventiva o, credo io, allo stesso 41 bis) e corre molti rischi.

È evidente che i recenti mutamenti politici aumentano le preoccupazioni per la tenuta dello Stato di diritto. Hanno vinto le elezioni - e sono andati al governo - i due partiti meno garantisti di tutto lo schieramento politico. I 5 Stelle non hanno mai fatto mistero delle proprie tendenze giustizialiste, e sono “marcati a vista” da giornalisti e opinionisti molto intransigenti. Basta leggere i quotidiani editoriali di Travaglio che sono altrettanti ammonimenti al partito di Di Maio a non “derazzare”. Certezza della pena, ridimensionamento della prescrizione, aumento delle intercettazioni e del diritto di pubblicarle, difesa ad oltranza della magistratura anche quando sbaglia. Sono queste le idee più conosciute dei 5 Stelle sulla Giustizia.

La Lega invece è un partito che con il garantismo ha sempre avuto un atteggiamento altalenante. Non lo ha mai considerato un principio, neppure ai tempi di Bossi, piuttosto uno strumento legittimo per difendere l’autonomia della politica.

Il problema è che lo Stato di diritto non può reggersi su un principio altalenante. Il garantismo non può essere solo uno strumento di difesa dell’autonomia della politica ( che pure è una cosa assolutamente necessaria) ma deve tutelare soprattutto i singoli e i più deboli; e il ridimensionamento della prescrizione, l’aumento delle intercettazioni, la certezza della pena, l’inasprimento penitenziario sono tutte idee che non si conciliano con lo Stato di diritto.

Per questo credo che siamo a un passaggio che può essere decisivo per il futuro del paese. Se la nuova coalizione deciderà di accettare la discussione sul terreno dei diritti e del diritto, e di rivedere molte delle sue idee, allora è possibile anche stabilire un rapporto diverso tra potere politico e opinione pubblica. E cioè si può interrompere il circolo vizioso che ha portato, in pochi anni, a un incattivimento impressionante dell’opinione pubblica e a un suo spostamento su posizioni che considerano il diritto e la democrazia due mostri da abbattere.

Se questa apertura invece non ci sarà, e se la nuova maggioranza cercherà di imprimere una svolta reazionaria alla gestione del diritto, allora dovremo assistere a un arretramento pericolosissimo e a un allontanamento dalla modernità.

E dentro a questo complicato discorso che il ruolo degli avvocati può essere importantissimo e forse decisivo. La battaglia del diritto, se è lasciata solo ai partiti politici, è una battaglia perdente. I partiti politici, proprio per come è fatto il loro Dna, non riescono a considerare il diritto come un aspetto essenziale della politica. Lo trattano come un problema secondario, e lo trattano in funzione dei propri interessi di quel momento. Il diritto ha un problema: crea giustizia ed equità, sì, ma non crea consenso. Per questo il ceto politico lo ama pochissimo, anzi lo teme.

Gli avvocati possono essere decisivi, sia per il patrimonio di conoscenze del quale dispongono, sia per la forza di convincimento che possono esprimere. Devono decidersi a buttare il cuore oltre l’ostacolo, a rischiare, ad accettare di diventare soggetto politico, cioè strumento delle proprie idee e della propria visione di società. Non più spettatori, ma protagonisti.

Recentemente è stata lanciata dal Cnf ( il Consiglio nazionale forense) l’idea dell’inserimento del ruolo dell’avvocato in Costituzione. Non è una idea di difesa di interessi o di tendenze corporative. Non c’è nessun vantaggio personale da difendere o conquistare. È semplicemente un modo per dare forza al giusto processo e alla parità tra accusa e difesa. Cioè riguarda una questione decisiva. Esiste un articolo della Costituzione, il 111, che è il pilastro dello Stato di diritto per quel che riguarda la giustizia penale. Purtroppo quell’articolo che stabilisce la parità tra difesa e accusa - è di difficilissima applicazione. Oggi non esiste la parità di accusa e difesa. E’ solo una affermazione di principio. Se al difensore viene riconosciuta la dignità di “protagonista costituzionale” del Diritto, ne guadagnano tutti. E’ una garanzia di equilibrio. Di autorevolezza. Di autonomia della Giurisdizione. I partiti di governo sono disposti a discutere di questo?