Quasi vent’anni di calvario giudiziario e un’assoluzione perché il fatto non costituisce reato. Ma poi la beffa: nonostante non abbia commesso alcun delitto, Emilia Salomone, assistente giudiziario al Tribunale di Torre Annunziata per 40 anni, dovrà pagare circa 12 milioni di euro di danni erariali. Sette milioni di euro in solido con il “cancelliere d’oro” Domenico Vernola e 5 milioni e 700mila euro ( in concorrenza) con l’allora procuratore Alfredo Ormanni. A stabilirlo è stata la Corte dei conti in sede d’appello, che nonostante l’assoluzione nel processo ordinario ha deciso che l’assistente giudiziario ha contribuito a far intascare a Vernola circa 30 miliardi di lire, sgraffignati allo Stato grazie ad una serie di falsi mandati di pagamento. «Per la Corte dei conti la mia non sarebbe un’assoluzione piena – racconta la donna al Dubbio –. Questo nonostante io sia un dipendente di sesto livello e non dovrei quindi nemmeno comparirci, davanti alla magistratura contabile. Era il dirigente a doverne rispondere».

Quella storia, per la Procura campana, fu un vero e proprio terremoto. Tutto ruotava attorno alla figura di Vernola, che per anni avrebbe falsificato i mandati di pagamento, collezionandone dal 1995 al 2002 ben 176, con i quali si era fatto rimborsare, assieme ad alcuni agenti della polizia giudiziaria finiti con lui a processo, circa 16 milioni di euro, con il “visto” per liquidazione, appunto, dall’ex procuratore Ormanni. La colpa di Salomone era stata quella di aver registrato, con la propria firma, 103 ordinativi al cosiddetto modello 12. Senza dolo, secondo il Tribunale di Roma che l’ha assolta in appello, dopo che la donna aveva rinunciato alla prescrizione per dimostrare la propria innocenza. Con «una ripetitività e continuità tale da renderla quantomeno pienamente consapevole della assoluta anomalia di mandati intestati sempre a Vernola», invece, secondo la Corte dei conti, che nella sentenza 117 del 2017 parla di «dolosa acquiscenza (...) al sistema fraudolento ordito da Vernola».

Si trattava di pagamenti effettuati in assenza di documentazione, per procedimenti penali inesistenti, missioni mai effettuate, anche durante periodi di ferie e congedi. Pagamenti ingiustificati e esorbitanti, anche da 7mila euro a missione. Anomalie delle quali Salomone si accorse, segnalandole al proprio superiore, che però la tranquillizzò. «Appena mi sono accorta che qualcosa non andava – spiega – per prima cosa ho riferito tutto al mio dirigente, che mi ha rassicurata, dicendo che erano spese coperte da segreto e, perciò, autointestate. Glielo dissi due volte e a dire la verità ero preoccupata, ma più per un fatto amministrativo: non ho mai pensato che Vernola stesse rubando».

Nessun sospetto, infatti, aveva sfiorato Salomone: del cancelliere si fidava. «Era un tipo sui generis e molto disordinato nel suo lavoro, quindi attribuivo a questo le sue mancanze», spiega. Ma a creare il sospetto della Procura prima e della Corte dei conti poi è stato un prestito da parte di Vernola alla donna. «Io non gli ho mai chiesto quei soldi – racconta –, gli avevo soltanto chiesto di presentarmi il direttore della banca, perché sapevo che tra loro c’erano buoni rapporti». Quei soldi servivano per l’acquisto di una proprietà, acquisto per il quale Salomone avrebbe voluto accedere ad un prestito agevolato. Ma Vernola non ha mai presentato il direttore alla donna, proponendo un’altra soluzione. «Mi disse che sua sorella, vedova di un generale e senza figli, aveva molti soldi da parte e che lo avrebbe fatto con piacere, anche perché così avrebbe pagato meno tasse – racconta –. Facemmo anche una scrittura privata, dissero che non volevano niente in cambio. Mi dovevo solo limitare a restituire 5 milioni l’anno».

Salomone e suo marito ricevettero 50 milioni a testa, tutti versati tramite assegni, dei quali restituirono 25 milioni, sempre a mezzo assegni. «Dopo il suo arresto, non avendo contatti con la sorella, mi sono fermata», aggiunge. Ma quel prestito, per la Corte dei conti, sarebbe stata la prova della partecipazione della Salomone a quel piano fraudolento messo in piedi da Vernola. «Io non ho mai falsificato nulla – sottolinea –. Mi limitavo ad annotare i pagamenti, in un registro che poi veniva controllato dalla Procura. Quella davanti alla Corte dei conti doveva essere una causa civile, invece mi sono sentita di nuovo giudicata. Hanno deciso di condannarmi, ma in realtà io non ho fatto niente. E vorrei si sapesse».

I mandati di pagamento che Vernola intestava a se stesso, infatti, venivano controllati dall’ufficio postale passando, da ultimo, dalla Ragioneria dello Stato e dalla Corte dei conti. «Quindi chi mi condanna è chi, con più competenze di me, ha poi controllato quei mandati ritenendoli validi», aggiunge. Ma come detto la colpa di Salomone, secondo la Corte dei conti, sarebbe stata quella di non aver denunciato, dopo essersi accorta delle anomalie, continuando a registrare i mandati di pagamento. Per i giudici contabili ci sarebbe stato, dunque, un effettivo apporto causale. Se avesse segnalato il tutto, contestano, il danno erariale sarebbe stato infatti arginato e il tutto scoperto anni prima.

Quel prestito, dunque, per i giudici sarebbe stato il modo di Vernola di “comprarla”, nonostante tale evenienza sia stata esclusa dai giudici di merito. E nonostante sia stato lo stesso cancelliere a scagionarla, riferendo ai pm di aver tratto in inganno la donna. Salomone ha ora presentato una revocatoria, sperando che la situazione possa risolversi. «Spero che qualche magistrato mi ascolti – racconta ancora –. Quando arrivò la prima condanna per me fu una doccia fredda. Fui allontanata dal lavoro per più di tre anni, la gente mi guardava come una ladra. Ho rinunciato alla prescrizione perché volevo dimostrare a tutti di essere innocente. Altri non l’hanno fatto. E nonostante la sentenza di assoluzione sia passata in giudicato ad ottobre 2016, ho ricominciato a lavorare solo a settembre dell’anno successivo. I soldi che mi chiedono non li saprei nemmeno contare – conclude – ma dovrò pagare questa tassa a vita, pur non avendo fatto niente».