«Nel mio piccolo sono molto felice per aver richiamato un po’ di attenzione sul tema della diffusione delle armi e ringrazio gli amici dei giornali che stamattina hanno rilanciato le mie parole. Ai tanti che mi hanno scritto sostenendo che il problema non è nell’oggetto ma nel soggetto, perché tutto è potenzialmente in grado di uccidere, vorrei dire solo una cosa. Gli oggetti non sono tutti uguali. Una automobile è fatta per spostarsi. Un martello per inchiodare. Un coltello per tagliare alimenti. Tutti e tre questi oggetti possono diventare armi. Ma quante pistole possono tagliare alimenti, appendere chiodi o trasportare persone?».

A scrivere queste parole, su Facebook, è Luca Di Bartolomei, per anni nel Pd con diverse posizioni apicali, e figlio di Ago. Sì, quell’Agostino Di Bartolomei che ha vinto lo scudetto a Roma da capitano e il 30 maggio del 1994 – e no, non ricorderemo che anniversario fosse, per rispetto alla vostra e soprattutto alla sua intelligenza – ha lasciato questa terra suicidandosi. Con una Smith & Wesson. Che il figlio Luca, allora alle medie, ha reso protagonista di un altro post, l’altro ieri. Quelle parole, appunto, rilanciate da tutti i giornali. «Questa è una Smith& Wesson 38 special uguale a quella che aveva Agostino. Quando la comprò negli anni 70 lo fece perché credeva che avrebbe così reso più sicuro la sua famiglia. Al 41% degli italiani che oggi vorrebbe acquistare un’arma più semplicemente per sentirsi più protetto vorrei raccontare – dati e studi alla mano – di come più pistole in giro significheranno solo più morti, più suicidi, più incidenti. Ed alla obiezione che chi vuole suicidarsi lo fa comunque vorrei solo dire che, per andare oltre il burrone che pensiamo di avere davanti, basta un attimo. E in quell’attimo non avere accesso ad un’arma può fare la differenza. Non lo dice una vittima lo dicono tutti gli studi disponibili. Pensate ai vostri figlie ed ai vostri nipoti. Una pistola non produce alcuna sicurezza. Credetemi». Gli crediamo e gli hanno creduto in tanti.

E soprattutto, come poi ha confermato la risposta di Matteo Salvini, ha messo il dito nella piaga della paura e del pregiudizio che sta consumando un paese terrorizzato da chi arma la politica con la polvere da sparo più potente, quella che si ricava quando si sminuzzano i diritti in favore dell’egoismo, della follia, della rabbia. E della giustizia fai da te. Ha messo in guardia il Ministro dell’Interno dalla «falsa sensazione di sicurezza che una maggiore diffusione di armi da fuoco porterebbe». E gli dà un ottimo consiglio: parlare con quelle Forze dell’Ordine che le armi le possono utilizzare. Guardare loro studi, le loro statistiche.

E’ stato coraggioso Luca Di Bartolomei – in verità due o tre volte l’anno torna a dire la sua sulle armi in modo molto netto –, perché non è facile combattere una battaglia pubblica mettendo in campo il proprio dolore privato. Lo è stato perché ha svelato, con semplicità e chiarezza, che il suicidio è sì una scelta, ma che alla volontà vanno unite le opportunità, e avere un’arma in casa, le aumenta.

Che come si uccide in un raptus, come c’è l’incapacità di intendere e volere tra le attenuanti per gli assassini, c’è anche per coloro che uccidono se stessi. Luca Di Bartolomei lo sa, perché porta nel cuore e nei ricordi come quella pistola, in quella posizione, in casa sua ha aperto una voragine nella sua vita.

E forse non trovarla – come molti studi dimostrano – avrebbe permesso ad Ago, in quel momento di dolore e autolesionismo, di fermarsi. Di tornare in sé, di non andare oltre il burrone, di recuperare la capacità di intendere e vivere che il buio nel cuore e nel cervello hanno spento per qualche minuto.

Ha detto a tutti noi che Matteo Salvini, come in molte altre sue dichiarazioni da quando è al governo, sta giocando con molte, troppe vite come se fossero pedoni sacrificabili di una scacchiera. Che siano migranti o uomini e donne in difficoltà, a lui poco importa: il rischio che anneghino nelle acque del Mediterraneo o nelle sabbie mobili della depressione interessa poco a chi è intento, per fini elettorali, a innaffiare il proprio consenso con le ossessioni e le paranoie collettive. Difendersi, è la parola d’ordine dell’esecutivo gialloverde, ma nessuno pensa a quanto e come quegli strumenti di difesa possano diventare armi incontrollabili anche contro se stessi, una sorta di veleno che potrà contagiare tutti.

Anche chi si crede dalla parte giusta di una pistola.

Eppure. Eppure due status così evidentemente giusti e inattaccabili sono divenuti anche motivo di attacco. Tanto che nel secondo, che abbiamo riportato all’inizio dell’articolo, Di Bartolomei ha bisogno di spiei garsi. Di parlare a chi dice “che non conta l’oggetto ma il soggetto”. Una scusa che la lobby delle armi, negli USA, utilizza da sempre. Mentre si stermina una generazione nelle scuole e si tira all’uomo nero per le strade.

Un figlio che ha perso un padre per un eccesso di volontà di protezione di quest’ultimo e, ovviamente, della battaglia durissima che quel capitano ha dovuto affrontare, si deve sorbire i tanti laureati all’Università della Rete. Ministro dell’interno compreso, che si è già pronunciato su temi medici ( i vaccini), economici e fiscali ( Equitalia) e ora anche sui profili psicologici degli aspiranti suicidi. Un genio incompreso che forse dovrebbe prendere ad interim metà dei dicasteri consegnati ai colleghi. Se di fatto tutto ciò non sia già avvenuto, ovviamente.

Viviamo in un paese adolescente che odia chi sa, che millanta conoscenze superficiali per soddisfare i propri bassi istinti. E che non sopporta chi, come il prof. Burioni o Luca Di Bartolomei, lo mette di fronte alle sue responsabilità, alle verità incontrovertibili che rifiuta per convenienza e ignoranza.

Questo è analfabetismo sociale, un cancro che potrebbe distruggerci. La pistola fumante che, ahinoi, non ha bisogno del porto d’armi.