Erri De Luca, scrittura e libertà: un binomio efficace dentro le carceri?

In principio direi “lettura e libertà”. Una persona che sta in prigione quando si mette un libro sotto il naso sta cancellando le sbarre e tutta la cella intorno, si sta facendo portare da un’altra parte. La lettura in carcere è un potentissimo strumento di sospensione della pena. A lungo andare si trasforma anche in una fornitura di vocabolario preciso che può raccontare l’esperienza di una vita, dei torti commessi o subiti, con delle parole più precise di quelle di cui si disponeva prima di cominciare la lettura.

E sulla scrittura cosa può dirci?

Quando le persone in carcere scrivono, scrivono di loro, della loro esperienza, di quel che hanno conosciuto. Per questo hanno una presa diretta sul lettore che è molto più forte, almeno per me lettore, di quella di chi sta inventando storie, elaborando personaggi e trame.

Nell’ambito del Premio Goliarda Sapienza, lei ha tenuto una delle lezioni come tutor?

“Lezioni” è una parola esagerata, per lo meno nel mio caso.

Ho tenuto compagnia per un paio d’ore a delle persone. Sono loro che impostano il dialogo con l’invitato, sono loro che dirigono l’incontro, dando la linea, la marcia, che definiscono gli argomenti che li interessano.

Lei è uno scrittore per cui l’impegno è molto importante. Ha avuto altre occasioni di entrare in contatto con l’universo carcerario?

Sì, sono da molto tempo un frequentatore, invitato. Da cittadino prendo degli impegni che riguardano argomenti e temi della società in cui vivo. Come scrittore semplicemente sono uno che racconta storie. Non sono uno scrittore impegnato, ma un cittadino che ogni tanto prende degli impegni.

Uno dei fini del carcere dovrebbe essere quello rieducativo. Lei pensa che riesca davvero ad adempiere questo compito così nobile?

Non è nobile, è costituzionale. Ciò detto, la Costituzione è un pezzo di carta molto nobile. Solo a tratti, in alcuni istituti, in alcune esperienze penitenziali si riesce a far sentire una responsabilità di lavoro, d’impegno, ai detenuti. Le condizioni di oggi sono comunque meno diseducative di come lo erano prima. Lo si vede sulla base della recidiva. Le carceri che funzionano meglio dal punto di vista del coinvolgimento del detenuto in attività, in studi, in laboratori, hanno un indice di recidiva basso.

C’è stato un fiorire importante d’iniziative culturali per le carceri, attività che hanno goduto anche di una buona visibilità. Non pensa che a volte questo possa far sì che si mitizzi il mondo del carcere e si nasconda ‘ la polvere sotto il tappeto’?

Il carcere è una segregazione. Solo che a lungo è stata una segregazione da tutto il resto della società. Queste attività, per esempio il Premio Goliarda Sapienza, voluto da Antonella Ferrera da molto tempo, hanno reso più porose le mura del carcere, più permeabili a quello che succede fuori, e hanno fatto sì che si conosca meglio quello che succede dentro. Queste iniziative fanno circolare ossigeno dentro quelle mura e lo trasmettono anche al resto della società esterna. Convincono persone come me, come altri, a occuparsene.

Leggendo le sinossi dei racconti che saranno pubblicati dalla Giulio Perrone Editore, ci si rende conto che spesso siamo di fronte a storie di vita. Alcuni testi però vanno al di là dell’esperienza vissuta, del carcere. Cosa significa secondo lei?

Questo dimostra il passaggio dall’autobiografia al racconto vero e proprio. C’è un tentativo di scrittura, di porsi come narratore e non semplicemente come relatore e redattore della propria esperienza. Comunque fa bene alla salute scrivere in prigione. Di solito l’attività che si fa più spesso consiste nello scrivere lettere. Il carcere è l’ultimo posto della nostra società in cui le comunicazioni avvengono ancora via lettera.

In attesa della premiazione del 10 maggio al Salone del Libro di Torino, qual è l’augurio che vuole dare alle persone che partecipano al concorso Goliarda Sapienza?

Ho inventato una formuletta. Di solito si dice: “Sono finito in carcere”. Attraverso questa scrittura si può rovesciare la frase e affermare: “Sono cominciato in carcere”. C’è un errore di grammatica, ma la formula vuole dire che quell’esperienza non è un tempo perso della propria vita, bensì un tempo di rimpasto e di riavvio della propria esistenza.

Sul futuro della politica carceraria che idea ha?

Alla lunga le carceri saranno abbandonate. Diventeranno dei musei.

È una speranza?

È una mia previsione.