Di Mario Mori, quando lo si incontra, colpisce la fredda serietà. Non alza mai la voce, nemmeno in mezzo al rumore. Si muove secco, dritto come un fuso. Calibrato in ogni affermazione, ricorda spesso che la memoria non l’ha mai tradito ma che, se anche lo facesse, dal 1982 compila ogni giorno un’agenda con nomi e orari e fatti. Un piccolo brigadiere della Dalmazia, con i capelli bianchi e i baffi corti che porta sulle spalle tutto il peso di un nome che è parte della storia d’Italia: per chi lo accusa, è il capo dei servizi deviati che sono scesi a patti con la mafia. Per chi lo difende, è il generale che ha servito lo Stato negli anni più bui della repubblica.Nato nel 1939 in terra di frontiera, a Postumia Grotte, una cittadina «ex Trieste» passata alla Jugoslavia nel 1947, come ogni figlio di un ufficiale dei carabinieri segue gli spostamenti del padre: medie a Trento, liceo a Roma, poi l’accademia militare di Modena e la Scuola di applicazione di Torino. Entra nell’arma nel 1966 e si guadagna presto i gradi di capitano: così arriva al Sid, l’allora servizio segreto militare comandato da Vito Miceli ( il generale arrestato nel 1974 per cospirazione contro lo Stato nell’inchiesta sulla Rosa dei Venti, poi assolto nel 1978) e Gianadelio Maletti.

L'ANTITERRORISMO

Dopo qualche anno passato a Napoli, Mori prende servizio a Roma, a capo della Sezione Anticrimine del Reparto Operativo, il 16 marzo del 1978: il giorno del sequestro di Aldo Moro. La sua sezione opera sotto il Nucleo speciale Antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che era stato sciolto nel 1976 ma ricostituito in tutta fretta dall’allora presidente del consiglio Giulio Andreotti. Nei 55 giorni di prigionia è a capo delle indagini ed è in piedi vicino al ministro dell’Interno Francesco Cossiga, davanti alla Renault rossa, il 9 maggio. Dopo l’uccisione di Moro, sotto la direzione di Dalla Chiesa, il gruppo guidato da Mori mette a segno duri colpi alle Br: prima l’individuazione del covo di via Montenevoso, a Milano, dove furono rinvenute le lettere di Moro e il cosiddet- to memoriale, poi, negli anni successivi, gli arresti eccellenti della colonna romana delle Br, come quello di Barbara Balzerani nel 1985.

Da Dalla Chiesa, Mori assimila un metodo che utilizzerà poi anche nelle indagini sulla mafia in Sicilia e che pone a fondamento dei principi guida del Ros: conoscere e possibilmente anche usare il vocabolario e le tecniche degli avversari per essere in grado di individuare il filo conduttore dei loro ragionamenti e di anticipare le loro mosse: “Sapere il più possibile dell’avversario, far sapere il meno possibile di noi”.Di Mori, il generale Dalla Chiesa nella valutazione finale scrive: “Ufficiale molto serio, molto riflessivo, molto responsabile ha dato nuova conferma di un patrimonio brillante di qualità intellettuali, morali, militari e di carattere. Nel particolare e delicato incarico della lotta frontale alla eversione, ha attinto a piene mani alla sua esperienza ed alla sua qualificata preparazione tecnico- professionale per condurre un’azione penetrante, responsabile, generosa, per offrire una collaborazione permeata di entusiasmo e di spirito di sacrificio e per garantire, con tatto ed efficacia, relazioni proficue con organi paralleli e con la stessa Autorità Giudiziaria. Gli esprimo la mia gratitudine. Rendimento pieno e sicuro”.

ROS

Mori viene mandato in Sicilia nel settembre 1986, durante il primo maxiprocesso alla mafia. L’allora comandante dell’Arma decide di chiamare sull’isola ufficiali di provata esperienza ma senza precedenti di servizio sul territorio, che potessero agire senza condizionamenti ambientali e personali. Così a Palermo arriva un capitano triestino, che non capisce il dialetto siciliano ma che coglie subito lo spirito siciliano: i carabinieri sono come i piemontesi invasori, e per la mafia vale la stessa tecnica usata coi terroristi: bisogna prima di tutto impararne la lingua.Forte di quell’esperienza professionale, nel 1990 Mori torna al comando generale con il mandato di organizzare un nuovo reparto dell’Arma: il Raggruppamento operativo speciale, il Ros. Una struttura che ancora oggi si occupa di contrasto alla mafia e al terrorismo in tutta Italia, derogando alla rigida logica territoriale dei carabinieri. Principale sostenitore del progetto: il magistrato Giovanni Falcone, che Mori aveva conosciuto nei suoi anni in Sicilia.La sede del nuovo reparto diventa la caserma di via Talamo, vicino a Villa Ada a Roma, che era stata occupata a suo tempo dell’Antiterrorismo, e a capo viene nominato il generale Antonio Subranni.

Con la carica di comandante di reparto, Mori torna in Sicilia e riprende l’inchiesta “mafia e appalti”, avviata nel suo primo soggiorno sull’isola e che teorizzava il rapporto tra la mafia e il settore economico imprenditoriale. A sostenerlo c’è di nuovo Giovanni Falcone e, dopo la sua morte, Paolo Borsellino. Entrambi la considerano un salto di qualità nella lotta a Cosa nostra, e Borsellino la ritiene causa scatenante della strage di Capaci. Proprio durante la conduzione di questa inchiesta, tuttavia, sorgono i primi dissapori tra il Ros di Mori e la Procura di Palermo, in particolare a causa delle indagini sulle presunte connivenze tra i boss e una parte della politica del capoluogo. A conferma dei timori di Mori, “Mafia e appalti” si chiude con gli arresti di una serie di imprenditori molto vicini ai vertici di Cosa nostra ma la Procura chiede l’archiviazione delle posizioni dei politici indagati, proprio il giorno dopo la strage di via D’Amelio.

L’ARRESTO DI RIINA

Il boss dei boss di Cosa nostra, Totò Riina, viene arrestato il 15 gennaio 1993 e a Palermo è una giornata d’inverno isolano, 11 gradi e nemmeno una nuvola in cielo. L’indagine che porta alla cattura del capo della più grande organizzazione criminale d’Europa è iniziata nell’infuocata estate del 1992, cioè nella stagione in cui l’aggressività contro lo Stato della strategia mafiosa voluta da Riina ha visto la sua escalation con le stragi di Capaci e di via D’Amelio.

In quell’anno, Mario Mori viene nominato vicecomandante del Ros, con responsabilità dell’at- tività operativa del reparto. Forma così un’unità speciale e a capo nomina Sergio De Caprio, il capitano Ultimo: la peculiarità del gruppo è di operare in modo svincolato dall’organizzazione dei carabinieri per evitare qualsiasi fuga di notizie e limitare qualsiasi contatto con il mondo esterno.

Le informazioni iniziano ad arrivare: prima il fatto che Riina si nasconde da qualche parte nel quartiere della Noce, capeggiata dalla famiglia mafiosa dei Ganci. Poi che uno dei figli del boss, Domenico, si reca spesso in un complesso residenziale in via Bernini. La svolta, però, arriva quando viene arrestato a Novara Baldassare Di Maggio, boss che inizia a collaborare col giudice Giancarlo Caselli e racconta del cosiddetto “fondo Gelsomino” dove avvengono le riunioni di Cosa nostra e di due costruttori palermitani favoreggiatori del latitante Riina ( già noti ai carabinieri perchè indagati durante l’inchiesta “mafia e appalti”). E’ questa l’informazione chiave: nel complesso di via Bernini risulta un’utenza telefonica intestata a loro.

Il 13 gennaio scatta l’operazione: su un furgone “balena”, con impianto per le riprese audiovisive, sono appostati gli uomini di Ultimo e il boss Di Maggio, che riconosce in un’auto che entra nel condominio la moglie di Riina, Ninetta Bagarella. Il secondo giorno di appostamento, a bordo di una Citroen ZX che esce dal complesso residenziale, Di Maggio riconosce un uomo d’onore alla guida e, accanto a lui, Totò Riina in persona.

La squadra di Ultimo, coordinata da Mori, fa scattare la trappola pochi chilometri dopo in un motel Agip e cattura entrambi i boss. L’uomo più ricercato d’Italia, l’ultrapotente Riina, è in trappola. Eppure, il generale lo considera il suo più grande rimpianto professionale: «Non ho avuto la forza di aspettare, di andare avanti nel pedinamento, se avessi atteso ancora qualche chilometro prima di dare l’ordine li avremmo presi tutti: seppi poi che Riina si stava dirigendo a una riunione della “commissione” provinciale di Cosa nostra. La correttezza era quella di andare avanti come insegnava la dottrina Dalla Chiesa, ma sentivo idealmente sopra di me il peso del comando generale dell’Arma del ministero dell’Interno e mi mancò il coraggio di attendere» . Dalla sua operazione più brillante, prende corpo il primo processo a suo carico. Mori viene rinviato a giudizio dalla procura di Palermo per favoreggiamento aggravato nei confronti di Cosa nostra, per aver ritardato la perquisizione nell’ultimo covo di Riina.

Il giorno dell’arresto, il magistrato torinese Caselli ha assunto le funzioni di procuratore della Repubblica di Palermo e proprio lui viene convinto da Mori e De Caprio ad aspettare ad entrare nella casa di via Bernini. «Una richiesta assolutamente coerente con la dottrina investigativa e la tecnica operativa dell’antiterrorismo dei Carabinieri, secondo le quali da ogni azione si dovevano ricavare i presupposti per poter proseguire l’indagine con efficacia», ha scritto Mori. In altre parole, se la perquisizione fosse avvenuta immediatamente, tutte le persone che avevano frequentato il covo si sarebbero sentite bruciate.

Così si consuma l’ennesima rottura con la procura di Palermo: il Ros di Mori vuole evitare l’intervento e sfruttare la superiorità informativa; i magistrati palermitani subentrati nell’operazione, invece, richiedono un’osservazione costante, incompatibile secondo i carabinieri con il luogo senza venire notati. Così De Caprio sospende l’osservazione con le modalità richieste dai pm, dopo alcuni giorni, e procede alla perquisizione della casa vuota. L’incomprensione porta al procedimento penale: «Il danno e la beffa, perché la responsabilità del ritardo nella perquisizione ricadde esclusivamente su me e De Caprio», ha commentato successivamente Mori.

I due carabinieri, però, vengono assolti il 20 febbraio 2006 e i pm Antonio Ingroia e Michele Prestipino non presentano ricorso in appello. La sentenza conferma che si è trattata di una scelta investigativa legittima e che “l’accettazione del rischio fu condivisa da tutti”.

L’AFFARE PROVENZANO

Dopo l’arresto di Riina, le indagini si spostano sul suo braccio destro Bernardo Provenzano, detto Binnu ‘ u tratturi per la ferocia con cui elimina gli avversari, latitante dal 1964. Un primo tentativo di indagine viene portato avanti grazie alla collaborazione di don Tano Badalamenti, boss di Cinisi detenuto in America, nel carcere federale di Memphis, ed esponente della cosiddetta mafia tradizionale, uscita perdente dalla guerra contro i corleonesi di Riina e Provenzano.

Il boss si fida del maresciallo Nino Lombardo e sembra disposto a qualche forma di collaborazione di giustizia, ma il suicidio di Lombardo in seguito a notizie di una sua presunta collusione con la mafia ( pronunciate durante la trasmissione di Michele Santoro da parte del sindaco di Palermo Leoluca Orlando) blocca l’operazione.

L’iniziativa del Ros è già però oggetto di maldicenze: in particolare si fa circolare la voce che che i carabinieri volessero favorire il ritorno della vecchia mafia.

Chiuso quel tentativo, nel 1996 viene chiesto un impegno operativo del Ros alla Dda di Reggio Calabria e Mori cessa le sue attività in Sicilia, ma il nome di Provenzano ( catturato nel 2006) torna, sempre attraverso un’iniziativa della Procura di Palermo.

Nel 2008 i sostituti procuratori Antonio Ingroia e Nino Di Matteo sostengono l’accusa contro Mori e il colonnello Mauro Obinu per aver assecondato la latitanza di Provenzano, col movente di garantire un patto siglato tra pezzi delle istituzioni e Cosa nostra. La tesi del pm si incrocia con l’inchiesta sulla presunta trattativa Stato- mafia, che negli stessi giorni inizia il suo iter processuale.

La linea accusatoria è che “Mori e Obinu, obbedendo a un indirizzo di politica criminale, hanno ritenuto di trovare una sciagurata soluzione nell’assecondare le fazioni più moderate di Provenzano e di Cosa nostra” e ancora che si è trattato di “una scelta sciagurata di politica criminale, e cioè la prosecuzione della latitanza di Provenzano. Allo stesso modo il governo e il Dap assecondarono il dialogo agendo in questa ottica di trattativa”. Secondo i pm, infatti, proprio il mancato arresto di Provenzano fa parte delle clausole del patto tra mafia e istituzioni. All’origine delle accuse ci sono le dichiarazioni del colonnello Michele Riccio, che ha sostenuto di avere ricevuto la soffiata da un pentito di un summit nelle campagne di Mezzojuso a cui avrebbe partecipato anche il nuovo capo di Cosa nostra e di essersi visto negare la possibilità di fare un blitz e procedere all’arresto: «Quel blitz non fu possibile perché i vertici del Ros non misero a disposizione i mezzi necessari» . In primo grado viene messa in dubbio l’attendibilità del testimone d’accusa, poi indagato per falsa testimonianza, e Mori e Obinu sono assolti con formula piena perché “il fatto non costituisce reato”. Il procuratore generale Roberto Scarpinato fa appello ridimensionando l’imputazione, ma la Corte ribadisce l’assoluzione aggiungendo che “Non può ritenersi provato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che gli imputati abbiano posto in essere la condotta loro contestata con la coscienza e la volontà di favorire il latitante Bernardo Provenzano”, ma soprattutto che “le risultanze processuali sono inidonee a provare la sussistenza del movente della trattativa”. Per i giudici c’è stata una “omissione” e una “sottovalutazione dell’importanza dello spunto investigativo”, ma nulla più. Infine, nel 2016 la Cassazione ritiene inammissibile il ricorso della procura di Palermo. «Avendo la coscienza a posto, sono sempre stato molto tranquillo», è stato il lapidario commento del generale al termine dell’ultimo grado di giudizio.

IL SISDE

I’ 1 ottobre 2001, a meno di un mese dall’attacco alle Torri Gemelle, Mori viene trasferito da Milano a Roma, per prendere servizio come direttore del Sisde, il servizio segreto civile. E’ il suo ultimo incarico operativo prima della pensione, nel 2006. Mori affronta il nuovo compito con le stesse tecniche imparate nel contrasto con il terrorismo politico e la mafia e, durante gli anni a capo del servizio, mette a segno arresti eccellenti sul fronte internazionale: il primo, quello del boss mafioso Giovanni Bonomo, tra i trenta ricercati più pericolosi e latitante dal 1996, rifugiato all’estero in Costa d’Avorio e catturato in Senegal; poi, la cattura degli assassini del colonnello Antonio Varisco, ucciso a Roma dalle Br nel 1979. «Avevo un debito da saldare nei confronti di un caro amico», ha detto Mori. I membri del gruppo di fuoco erano Prospero Gallinari, Rita Algranati, Alessio Casimirri e Antonio Savasta e gli ultimi tre erano ancora latitanti, in Nicaragua e Maghreb. Non riuscì a catturare Casimirri e Savasta, mentre Algranati, nota come la “compagna Marzia”, venne fermata al Cairo nel 2004, dopo averne seguito gli spostamenti in tutto il nord Africa. Infine, con l’operazione “Tramonto rosso”, fornì alla Digos di Milano, coordinata da Ilda Boccassini, gli strumnenti necessari per sgominare le nuove Br, che stavano progettando l’omicidio del giuslavorista Pietro Ichino, arrestando tutti i membri.

TRATTATIVA STATO- MAFIA

La storia del generale Mori, forse uno degli investigatori più noti nella storia dell’Arma, avrebbe potuto concludersi con la pensione. Invece, dopo i due processi e le due assoluzioni, la Procura di Palermo porta avanti contro di lui un terzo filone di indagine.

La tesi richiama in modo diretto quella sostenuta nel processo per il mancato l’arresto di Provenzano e anche i pm sono gli stessi: Antonio Di Matteo, Antonio Ingroia, con Vittorio Teresi e Roberto Tartaglia. Del resto, il procuratore capo Scarpinato, che Mori ha conosciuto negli anni Novanta e con il quale da capo del Ros non ha mai instaurato alcun rapporto di fiducia, ha sostenuto più volte che: «C’è un filo rosso che attraversa tutte le vicende di cui il generale Mario Mori si è reso protagonista». Nel caso del processo sulla Trattativa Stato- Mafia, Mori è considerato l’anello di congiunzione tra pezzi deviati dello Stato e Cosa nostra, in una trattativa che punta a fermare lo stragismo mafioso “concedendo” una tregua. Tra i punti di questa tregua, proprio la latitanza di Provenzano, capo dei capi succeduto a Riina. Caposaldo dell’ipotesi di una trattativa, secondo la Procura palermitana, è l’incontro tra Mori e l’ex sindaco di Palermo, il democristiano in odore di mafia, Vito Ciancimino, nel 1992. Per la procura, è l’inizio del dialogo con Cosa nostra. Per Mori, Ciancimino è una tra le fonti da sondare per arrestare Riina e del cui contatto non venne allertata la Procura di Palermo, con la quale i rapporti di fiducia si erano molto compromessi dopo l’archiviazione di “mafia e appalti”. «Mi avvalsi delle mie facoltà e decisi di non comunicare alla procura che stavamo tentando di acquisire come fonte Vito Ciancimino», ha spiegato Mori, allora convinto che «non tutti i pubblici ministeri di Palermo fossero decisi a combattere Cosa nostra».

Su questo elemento si fonda l’inchiesta per minaccia a corpo politico dello Stato e la Corte accoglie la tesi della Procura: il capo di imputazione per Mori non è identico a quello su Provenzano per cui è stato assolto dalla Cassazione, perché il fatto storico del mancato arresto nel 1995 viene considerato dall’accusa come conseguenza del dialogo avviato nel 1992 e non è l’oggetto principale.

Dopo 5 anni di udienze, nel 2018 il Tribunale di Palermo condanna in primo grado Mario Mori a 12 anni di carcere, quale anello di congiunzione della trattativa, insieme a chi all’epoca dei fatti collaborava con lui nel Ros. Assolve invece per prescrizione il boss Leoluca Bagarella e perché il fatto non sussiste il politico Dc Nicola Mancino.

A chi gli domanda come abbia affrontato il processo, di cui ha presenziato ad ogni udienza, Mori risponde secco: «con la testa». E a chi gliene ha chiesto conto prima della sentenza, ha sempre replicato che i processi si discutono nelle aule di tribunale. In attesa della sentenza, ha preso parte a un documentario- intervista dal titolo “ Generale Mori, un’Italia a testa alta”, che suscita polemiche dovunque venga presentato, delle quali lui si cura molto poco. Del resto, nella sua biografia “Ad alto rischio” ( scritta a quattro mani col giornalista Giovanni Fasanella) ha sintetizzato così il suo stato d’animo: «Se sono amareggiato? No. Conosco la storia del mio paese con tutte le sue anomalie, so che servire lealmente lo Stato colpendo interessi consolidati, come abbiamo fatto io e i miei commilitoni, comporta dei rischi».

Il rischio, per lui, sono stati vent’anni di processi e la condanna più odiosa: quella per collusione con il sistema mafioso, affrontata con la stessa freddezza di sempre. Infatti, dopo la lettura del dispositivo nell’aula bunker di Palermo, non ha rilasciato alcun commento.