A maggio ricorre il 40esimo anniversario della promulgazione della legge che abolì i manicomi. Prende il nome da Franco Basaglia, colui che si è tanto battuto per ottenere questa legge. Proprio nel 1978, infatti, è stata sancita la “Legge 180” che stabiliva la chiusura di tutti gli ospedali psichiatrici, con la restituzione dei diritti civili e politici e il riconoscimento della dignità ai malati mentali precedentemente condannati alla segregazione e a trattamenti disumani. La chiusura dei manicomi non era da considerare solo come lo scopo finale dell’operazione di Basaglia, ma come il mezzo attraverso cui la società poteva fare i conti con quella figura da sempre inquietante che è il diverso, come il folle, il tossicodipendente o l’emarginato. La legge Basaglia e la chiusura del manicomio civile è stato un passo fondamentale, ma era rimasto scoperto ancora il buco nero degli Ospedali psichiatrici giudiziari ( Opg), aboliti ufficialmente con la legge 81 del 2014 e definitivamente chiusi a febbraio dello scorso anno. Nel dicembre 2011, in concomitanza con l’inizio dell’avventura della legge 81, approvata poi nel 2014, le persone internate nei sei Opg d’Italia erano 1300. Alla vigilia del 31 marzo 2015, data indicata dalla legge n. 81 del 2014 per il superamento definitivo degli ospedali, nei sei Opg erano rimaste 708 persone, di cui una buona metà immediatamente dimissibili. Quasi un anno dopo, nel febbraio 2016, ancora sopravvivevano 4 Opg - Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Aversa e Barcellona Pozzo di Gotto - con un centinaio di persone internate illegalmente e sei regioni inadempienti rispetto all’attuazione dei programmi per il superamento degli Opg, la presa in carico delle persone e l’apertura delle Rems, le residenze per l’esecu- zione delle misure di sicurezza detentive indicate dalla legge. Nel 2017 finalmente la chiusura definitiva. Ma come è stato – e per certi versi lo è ancora – per la “Legge Basaglia”, ancora manca la piena attuazione dello spirito riformatore. Rimane il problema dei detenuti psichiatrici al quale il personale della polizia penitenziaria, da sola, non può far fronte. Il carcere è, di fatto, un amplificatore dei disturbi mentali e può alimentare una sorta di circolo vizioso della sofferenza psichica: l’isolamento e la mancanza di contatto con l’esterno, insieme allo shock della detenzione, possono facilitare la comparsa o l’aggravarsi di un disagio psichico che può essere già diagnosticato o ancora latente. La patologia psichiatrica riguarda 1 detenuto su 7, l’abuso di sostanze interessa il 1050% dei detenuti, il suicidio resta una delle prime cause di morte in carcere. I numeri, diffusi l’anno scorso dalla Società Italiana di Psichiatria, dalla Società Italiana di Psichiatria delle Dipendenze e dalla Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria, si riferiscono ad un contesto internazionale. Purtroppo l’Italia manca di dati epidemiologici propri, ma come specificano gli esperti si ritengono validi anche per il nostro Paese. Alcuni istituti penitenziari dotati di articolazioni psichiatriche risultano ancora inidonei a supportare i detenuti psichiatrici.

A questo si aggiunge un altro problema. Quello degli internati psichiatrici reclusi in carcere. La legge 81 stabilisce un limite per la permanenza nelle Rems e i Dipartimenti di salute mentale devono elaborare piani terapeutici individuali. Però le Rems sono piene – questo è anche dovuto dal fatto che i giudici, con grande facilità, emettono troppi ordinanze di misure di sicurezza – e si creano le liste d’attesa. Alcuni internati attendono in libertà e altri, invece, sono reclusi anche se non sono ufficialmente dei detenuti. Un questione di profonda illegalità dove non di rado finisce in tragedia come il caso di Valerio Guerrieri, un 22enne che si uccise nel carcere romano di Regina Coeli. Doveva essere ospite di una Rems e invece era trattenuto illegalmente in carcere. Attualmente 441 persone sono in attesa di un posto, un centinaio di loro lo attendono dietro le sbarre.