«Con l’emergenza della Siria finisce la crisi finta e comincia la crisi vera. Se non l’affrontiamo, rischiamo di rivelarci un Paese provinciale, che non sa guardare oltre il suo ombelico e dimentica lo scenario internazionale». Marco Follini, ex vicepresidente del Consiglio del governo Berlusconi ( «ma era un’altra era geologica» ), analizza la fase politica post- voto, scossa in questi giorni di consultazioni dall’escalation drammatica della guerra in Siria, che rischia di chiamare in causa l’Italia e la sua collocazione sullo scacchiere mondiale ben prima che si dirimano le incognite sul futuro del governo.

Il conflitto siriano irrompe in questi giorni di consultazioni. Un ulteriore elemento di complessità?

La drammaticità della situazione che si è venuta a produrre in Siria riporta al centro del dibattito politico italiano la questione della col- locazione internazionale del nostro Paese. Del resto, l’idea che queste consultazioni potessero risolversi in un piccolo gioco tutto interno a partiti assolutamente disattenti a quello che accade nel resto del mondo era appunto un’illusione. Provinciale e pericolosa. Ora Di Maio e Salvini si dovranno confrontare sul ruolo dell’Italia nel mondo. Che è questione più complessa, e più rilevante, della mitica “guerra alla casta”.

Il nostro dibattito pubblico e politico arriva impreparato ad affrontare la questione?

Trovo onestamente surreale che la crisi politica di queste settimane si sia snodata senza mai affrontare la questione del nostro posto nel mondo. Ora, Salvini mi sembra stia facendo un tifo spropositato per la Russia di Putin. I Cinquestelle sono passati dall’antieuropeismo delle origini a una posizione apparentemente più canonica. Che possano governare assieme senza chiarirsi su questi argomenti mi parrebbe un azzardo, privo di senso comune. Il mondo globale chiede a ogni paese un minimo di certezza sulle sue alleanze, i suoi disegni, la sua collocazione. E’ un appuntamento a cui i “vecchi” partiti hanno sempre ottemperato. Mi auguro che i “nuovi” non siano da meno. Ma è un augurio, non una certezza.

La storica collocazione italiana nella cornice del patto atlantico potrebbe venire alterata?

Il risultato elettorale ci ha consegnato un verdetto ancora ambiguo. E questo è un problema. Ricordo sommessamente che dal 1945 ad oggi vi sono stati pochi dubbi sulla nostra collocazione nello scacchiere mondiale. La scelta europea e quella atlantica sono state sempre un punto fermo. Insinuare un’incertezza - peraltro in uno scenario così inquietante- sarebbe ora un serio problema. Lo dico ai tifosi e ai titolari della Terza Repubblica, se così la si vuole chiamare.

Si riferisce alle posizioni dei due partiti che, per ora, sembrano più vicini ad un mandato di governo?

Vedo che Salvini è in prima linea nel chiedere l’appeasement con la Russia e che Di Maio professa un atlantismo quasi “classico'. Non mi sembra esattamente lo stesso programma. La politica estera è il cuore di un progetto di governo, non può essere relegata tra le varie ed eventuali. Non siamo un paesucolo a cui il resto del mondo non presta nessuna attenzione. Abbiamo un peso, e quindi dei doveri. Il primo dovere della nuova classe dirigente è quello di leggere con chiarezza sulla bussola della sua politica nel mare in tempesta della globalizzazione.

Lei ritiene che queste consultazioni, anche in vista di un possibile aggravarsi della situazione internazionale, siano in grado di produrre un governo?

Non sta a me fare profezie. Però ho la netta sensazione che la classe dirigente che ha vinto le elezioni abbia dato il meglio di sé in campagna elettorale, e dunque possa essere tentata di ripetere l’impresa. D’altro canto è più facile chiedere i voti spargendo demagogia piuttosto che onorare impegni di governo che possono rivelarsi gravosi. Tanto più in un frangente non facile dell’economia. Va tanto di moda evocare il “cambiamento” senza specificare troppo come e dove e a quali condizioni si vuole cambiare. In questo contesto la tentazione di tornare alle urne rischia di essere forte e comoda. Fare un governo e poggiarlo su basi solide richiede una virtù politica che forse da quelle parti deve ancora essere trovata.

Il governo Gentiloni, che oggi prosegue la sua attività di ordinaria amministrazione, potrebbe trovarsi a far fronte a questioni che invece richiederebbero un mandato pieno?

E’ chiaro che quando la situazione nel mondo si fa così accesa e turbolenta sarebbe auspicabile avere un governo nel pieno esercizio dei suoi poteri. Detto questo, credo che Gentiloni saprà gestire questo frangente con misura ma senza farsi inghiottire dal vuoto della crisi. Proprio per questo, però, mi permetto di insistere. Le vicende internazionali sono il vero banco di prova del talento e della visione dei nuovi arrivati. Saranno capaci di gestire la crisi dando a questo argomento la priorità che esige? Costruiranno alleanze e schemi di gioco coerenti con una visione più ampia del ruolo internazionale del nostro paese? L’equazione di questi giorni è tutta qui. Scommettere che sapranno risolverla richiede un certo ottimismo. Superiore al mio, lo confesso.