Primo: «L’Anm farà propria ogni ragionevole proposta, a maggior ragione se proveniente da autorevoli associati». Come a dire che la neonata “rete dei procuratori” non sarà un problema ma una risorsa. Secondo: «Visto che vogliamo raggiungere obiettivi», a cominciare da un «ripensamento» delle intercettazioni, «che, riteniamo, sono comuni a tutte le componenti del mondo giudiziario, proseguiremo nel dialogo con l’avvocatura: siamo convinti che un’azione comune con il mondo forense, pur nella fisiologica diversità di vedute, sia imprescindibile». Francesco Minisci si è presentato così, sabato scorso, al suo insediamento da nuovo presidente dell’Associazione magistrati. È stato coerente con il suo profilo di moderato. Iscritto a Unicost, la componente centrista dell’associazionismo togato, il sostituto della Procura di Roma, esperto di antimafia e antiterrorismo, non ha drammatizzato il tema dei temi, quello appunto del nascente coordinamento dei procuratori, promosso nelle scorse settimane dai capi degli uffici maggiori. E ha ribadito il ruolo istituzionale irrinunciabile dell’Anm anche con quel richiamo al rapporto tra avvocati e magistratura, che evidentemente può svolgersi appieno se vede protagonisti gli organismi rappresentativi. Non c’è da sorprendersi: la personalità di Minisci, il suo metodo aperto e appunto moderato, in linea col predecessore Albamonte, sono noti. Solo chi non li conosce avrà trovato spiazzanti altri segnali, come i riferimenti a temi che Piercamillo Davigo vedrebbe in modo opposto, compreso il rapporto con la politica. Prima di assumere, tre giorni fa, il ruolo di vertice, Minisci infatti era stato segretario nella giunta guidata fino ad aprile 2017 proprio dell’ex pm di Mani pulite. Con il quale non aveva mai avuto attriti, nonostante la diversità di vedute: il che evidentemente è segno anche del suo approccio sereno, alla luce di quanto detto davanti al “parlamentino” dell’Anm che l’ha scelto nel fine settimana. A proposito del rapporto con la politica, Minisci ha chiarito di «rigettare» una visione «radicale» secondo cui «da una parte ci sono i buoni e dall’altra i cattivi». E, sempre senza citare Davigo, ha definito «rischioso» un istituto come quello dell’agente provocatore, caro appunto al collega che l’ha preceduto. Ma soprattutto ha rilanciato il «dialogo» anche con la politica sui nodi da affrontare: le intercettazioni, come detto, e la norma sull’avocazione obbligatoria. Sarà una presidenza impegnativa, per il pm della Capitale, anche perché coincide con la campagna elettorale per eleggere i togati al Csm, in cui si daranno battaglia le stesse correnti che lo sostengono nella giunta unitaria. Ma Minisci fa capire che non sarà certo lui ad appiccare incendi.