Per mesi si è favoleggiato su contatti segreti, segretissimi: praticamente alla luce del sole, tra Pd e FI, tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, per portare l’Italia, complice il Rosatellum, alle grandi intese. Oggi invece i protagonisti sono Lega e M5S. L’imprevisto paradosso delle larghe intese populiste

Adesso è tutto più difficile, spiega Luigi Di Maio, destreggiandosi nello slalom che porta alle elezione dei presidenti di Camera e Senato. In verità che le forze vincitrici delle elezioni avessero di fronte un percorso a ostacoli, era chiaro anche prima. E i giorni che verranno forse aiuteranno a sciogliere i nodi. O forse no. Però c’è un elemento che troppo spesso sfugge è che invece è decisivo: il rovesciamento di ruoli per M5S e Lega che le urne hanno determinato. Per mesi si è favoleggiato su contatti segreti, segretissimi: praticamente alla luce del sole, tra Pd e FI, tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, per portare l’Italia, complice il Rosatellum, alle grandi intese, all’accordo tra riformisti duri e puri che finalmente avrebbe fatto uscire il Paese dalle secche del populismo e della demagogia. Adesso, al riguardo, c’è chi parla di pure farneticazioni ed eterogenesi dei fini in riferimento il meccanismo elettorale che si è ribaltato nel contrario degli auspici di chi l’ha approvato.

Ciò che in ogni caso passa colpevolmente inosservato è che le Grandi Intese non sono affatto sepolte. Con una particolarità significativa: che a stipularle, del caso, possono essere solo e sola- mente proprio quei partiti e movimenti che ne dovevano essere le vittime. Dunque se di eterogenesi dei fini si deve parlare è questo il terreno obbligato su cui cimentarsi. Le larghe intese le possono stipulare Di Maio e Salvini e basta, nessun altro. E di comune accordo magari indirizzandole sul percorso che decreti il loro rispettivo protagonismo: una riforma elettorale che riporti gli italiani alle urne a breve; un bipolarismo 2 o 3.0 fondato su Cinquestelle e Carroccio che releghi tutti gli altri partiti, a partire dal Pd, a recitare inesorabilmente e obbligatoriamente la parte di comprimari.

Le larghe intese populiste possono essere considerate una iattura o, come assicura Steve Bannon strizzando l’occhio, il forcipe della democrazia di tipo nuovo, la Terza repubblica italiana destinata a diventare il faro politico per il resto dell’Europa e forse del mondo. Comunque sia, sono un tema all’ordine del giorno. Chi le reclama sicuro che siano il veleno con il quale ambedue le forze politiche che le decretano, poi si escluderanno, una sorta di cicuta che salvaguardi l’equilibrio politico come lo abbiamo conosciuto e vissuto, deve anche valutarne i rischi. Nella versione prima del voto, le larghe intese dovevano essere la salvezza del Paese, la formula che avrebbe messo l’Italia al riparo dei suoi stessi guai, in scia a quanto avviene nello Stato guida dell’Unione europea: la Germania. Quella prospettiva è stata annientata dal voto del 4 marzo perché chi doveva incarnarla è uscito sconfitto: politicamente e personalmente.

Tuttavia quel pentagramma su cui esercitarsi nella sinfonia del dopo urne, resiste eccome: lo vediamo nei contatti in atto per le presidenze delle Camere e per la realizzazione di una maggioranza in grado di esprimere un governo. Non che sia semplice, tutt’altro. In particolare perché nel centrodestra Salvini non è padrone di dare le carte: non tutte almeno, e guai a sottovalutare la capacità resistenziale di Berlusconi. Però i numeri, che di un sistema democratico sono la sostanza della politica, squadernano una verità inoppugnabile: se mai larghe intese si faranno avranno il marchio di quelle forze contro cui dovevano porsi come barriera e antidoto. Un rovesciamento di prospettiva e di ruoli che chiama in causa, in primo luogo e ovviamente, i protagonisti eventuali dell’abbraccio ma anche - e forse soprattuto - gli altri, gli esclusi. Che hanno due strade davanti a loro: arrendersi alla forza delle cose e magari attrezzarsi per opporvisi. È la strada di chi pensa che quelle possibili intese tanto larghe non siano: possono al massimo riguardare il 50 per cento dell’elettorato, per cui l’altra metà ha ben titolo di unirsi e fare muro. Oppure - ed è l’altra scelta - spianare la strada a quell’esito nel convincimento che gli attori di una così innaturale liaison alla fine ne verranno travolti.

Vedremo. Tuttavia il sentimento di qualcosa di ineluttabile che le urne italiane hanno fatto emergere, come se le schede fossero state altrettanti bisturi che hanno affondato la lama nel corpacciute del Paese stillandone fuori gli umori più profondi, si diffonde e sparge i suoi effluvi. Le larghe intese populiste possono diventare il macigno che affonda definitivamente l’Italia. In questo caso per evitarle bisognerà affondare le mani nella melma, sporcandosele senza far gli schizzinosi. Mettendosi in gioco. Anche a costo di lanciarsi in mare aperto e rischiare di affogare.