«Non me l’aspettavo proprio». Sergio Staino, storico vignettista ed ex direttore dell’Unità, una vita nel Pci e ancora oggi militante del Pd, non minimizza la sconfitta elettorale, ma vede come unica strada quella di «cercare un punto di incontro con i grillini, perché tra di loro ci sono i nostri elettori e non possiamo consegnarli tra le braccia della Lega».

Era una Caporetto annunciata, quella del Pd?

Io per primo mi rendo conto di non aver voluto credere ai tanti segnali che ci arrivavano da parte di tanti ormai ex elettori ed ex compagni, che stavano davvero cadendo tra le braccia di due sentimenti fortissimi: il rancore verso la classe dirigente e la paura per l’immigrazione incontrollata. Questo ci costringe a una riflessione, a partire dal rapporto del partito con il territorio, che in questi anni è stato abbandonato a se stesso.

Nel partito lo scossone è già arrivato, con le dimissioni del segretario, Matteo Renzi.

La sua è stata una scelta corretta, perché con queste premesse non c’era davvero la possibilità che rimanesse. Tuttavia la colpa non è tutta di Renzi: l’abbandono del territorio viene da lontano, dalla gestione del gruppo dirigente precedente che aveva Massimo D’Alema in prima fila. Sua era l’idea che si potesse fare politica dai corridoi dei palazzi. Renzi, però, ha allargato questo scollamento pensando che bastassero i tweet a risolvere tutto. Invece, il voto ha dimostrato che sarebbero servite le facce dei nostri militanti, il porta a porta, il confronto e la discussione. Il voto di oggi va al di là dei numeri e mette in discussione tutto il partito.

La colpa non è tutta sua, ma quali sono state le responsabilità di Renzi?

A stroncarci è stato proprio l’odio degli elettori nei suoi confronti. Renzi ha fatto di tutto per essere il centro e l’unico attore, si è mosso allontanando ogni possibile alleato e si è circondato di persone inette e incapaci di capire la realtà e la politica.

Chi potrebbe prendere in mano la segreteria?

Difficile dirlo, ma a me vengono in mente i nomi di Piero Fassino, Graziano Delrio oppure Dario Franceschini.

Per tutta la sinistra è stata una debàcle, però. Liberi e Uguali ha di poco superato il 3%.

Quello era un risultato atteso. Che D’Alema fosse finito si era capito da tempo e mettersi nelle mani di uno come Grasso era una follia. Questi estremisti sono stati totalmente incoscienti, senza rendersi conto di cosa succedeva intorno a loro.

Ora, secondo lei, che cosa succederà? I risultati non restituiscono una maggioranza.

E’ vero, ma non illudiamoci di andare a nuove elezioni a breve. Anzi, credo che un’altra tornata elettorale a stretto giro segnerebbe la fine del Pd e della sinistra riformista, quindi allontaniamo l’idea di ritorno alle urne.

Saranno anni di opposizione?

Io spero di no. Che cosa di mettiamo a fare all’opposizione? Ora bisogna sporcarsi le mani e cercare un punto di incontro con i grillini: non ci sono altre possibilità e lo dice uno come me, che ha sempre visto il Movimento 5 Stelle come fumo negli occhi.

E perchè no all’opposizione?

Perchè sarebbe una scelta snob, nello stile di D’Alema o Bersani. Stare all’opposizione significherebbe lasciar andare tra le braccia della Lega i tanti compagni che, sbagliando, hanno votato per i grillini. Non si può permettere che si formi un’alleanza Lega- 5 Stelle, valorizzando la destra violenta. Tra i due, bisogna scegliere di dialogare con i grillini, ricostruendo in contemporanea il partito a partire dalla sostituzione di Renzi.

Ma su che basi il Pd può cercare una convergenza con Di Maio?

So perfettamente quali sono i limiti e i pericoli di una scelta del genere. In questo momento, però, il mio partito ha perso il contatto con le classi popolari italiane e non sa che tristezza e rabbia mi faccia la consapevolezza di aver mandato i nostri elettori a votare i grillini e Lega. E allora il Pd deve entrare nella discussione, dimostrando al proprio elettorato perduto di essere pronto a portare avanti istanze di sinistra all’interno di un dibattito con gli esponenti politici che loro hanno scelto.

Perché questi elettori si sono rivolti ai partiti populisti?

I nostri operai e i nostri lavoratori hanno scelto un voto di rancore e di totale contestazione della nostra classe dirigente. Su questo dobbiamo lavorare e, per farlo, non possiamo stare fuori dal governo con la logica del “rimango fuori e ricostruisco il partito”. Bisogna affrontare, anche attraverso il dialogo coi grillini, le sofferenze e le paure dei ceti popolari. Basta con lo snobismo, bisogna ricominciare ad ascoltare gli elettori.

L’Italia è divisa in due, a nord la Lega e a sud i 5 Stelle.

Si tratta però sempre della classe popolare. Nel sud delle poche prospettive di lavoro gli elettori sono stati sensibili al tema del reddito di cittadinanza; nel nord invece ha prevalso l’illusione dello sviluppo economico anche a scapito di una visione europeista. Due visioni diverse ma omogenee come punto di partenza e come tali vanno gestite: come perdite del nostro sangue. Dovevamo essere noi a dare risposte a questi cittadini e non le abbiamo date, perché non siamo stati presenti sui territori.

Il vero problema del Pd è la perdita di radicamento, quindi?

Come dicevo, il partito deve rinascere dal territorio, tornando ad essere un insieme di appassionati della politica. Non può più essere che i giovani si iscrivano al Pd perché pensano, un domani, di andare in Parlamento o di avere uno stipendio da dirigenti nei comuni.

L’unica certezza, oggi, è che il Pd sia all’anno Zero. Il centrosinistra così ferito riuscirà a rialzarsi?

Guardi, la voglia di farlo c’è e io ci sono. Ci sono soprattutto Veltroni, Fassino, Delrio, Orlando, Cuperlo, migliaia di compagni, lo stesso Renzi, ovviamente ed anche, perché no, Bersani... insomma, le persone ci sono. Sarà un lavoro di anni, in una legislatura lacrime e sangue. Dovremo anche cercare nuovi legami in Europa, dove tutta la sinistra è in crisi, ma nessuno di noi si tirerà indietro davanti alla sfida. Per cominciare dovremo tornare a studiare e a cercare di capire quella realtà che non abbiamo compreso.