A ben guardare la parola “riforme” è tra quelle che, in vista del 4 marzo, si è più accuratamente evitato di pronunciare. Ancora più di rado, a parte alcuni passi del programma di centrodestra, la questione è stata declinata alla voce “giustizia”. «Sì, c’è un’esitazione generale rispetto all’argomento riforme, che viene dallo choc del 4 dicembre 2016», nota il costituzionalista Beniamino Caravita di Toritto, «ma riguardo alla giustizia vedo una remora ulteriore: è legata al timore che l’opinione pubblica reagisca in modo negativo a proposte di modifica dell’ordinamento o di razionalizzazione del processo». Il professore di Diritto pubblico della Sapienza è uno dei costituzionalisti più attenti alle dinamiche elettorali: il suo ultimo editoriale sulla rivista on line Federalismi è tra le mappe ragionate più complete sui diversi possibili scenari del dopo voto. Caravita non può fare a meno di notare l’elusività dei partiti rispetto «alle riforme in generale e quelle della giustizia in particolare: si è persa l’occasione di affrontare il nodo della cosiddetta mediatizzazione del processo o la separazione delle carriere», dice, «che parte della magistratura non respingerebbe a priori». E anche sul tema della libertà e dell’indipendenza dell’avvocato, posto dal Consiglio nazionale forense, il giurista non vede «perché si dovrebbero opporre chiusure».

Possibile che il silenzio sulla giustizia segnali un superamento del conflitto iniziato con Tangentopoli?

È un’ipotesi che non mi convince. Con una battuta potremmo dire che in una campagna elettorale così brutta sarebbe stato impossibile affrontare un tema così serio come la giustizia. A guardare con maggiore attenzione, però, non possiamo accontentarci neppure della generale afasia indotta dal referendum del dicembre 2016. Aggiungo, sempre in relazione all’ipotesi di partenza, di non escludere affatto che l’Italia possa svegliarsi ancora più giustizialista, la mattina del 5 marzo. Ma appunto, il vero fattore che ha messo in un angolo le questioni della giustizia è la paura.

Paura di fallire in un tentativo troppo difficile?

Più precisamente, paura di scontrarsi con un’opinione pubblica diffidente e pronta a intravedere un’autodifesa corporativa della cosiddetta ‘ casta’ dietro ogni intervento in materia penale. Scusi, ma secondo lei il caso Fanpage- De Luca, al di là della consistenza delle ipotesi adombrate dai filmati, è stato visto dalla maggioranza dei cittadini come un abuso degli strumenti dell’informazione o come un strumento per la doverosa condanna di una corruzione pervasiva?

Più attendibile la seconda ipotesi.

Ecco, appunto: l’atteggiamento prevalente è quello. Dopodiché si può anche dire che l’omissione di cui parliamo è un’occasione persa, perché credo ci siano tanti temi sui quali si potrebbe trovare un accordo tra le forze politiche più moderate e responsabili e persino con la parte più lungimirante della magistratura.

Ad esempio?

Alcune norme sul funzionamento del Csm, il rapporto tra pubblico ministero e Tribunale o tra Procure e media: tutte questioni sulle quali si è ormai manifestata la consapevolezza e l’atteggiamento costruttivo di ampi settori della magistratura.

Lo confermano le recenti circolari dei procuratori Pignatone e Melillo su iscrizioni a registro degli indagati e intercettazioni. Così come le parole pronunciate tre giorni fa dal presidente dell’Anm Albamonte.

Certo. E, più di tutti, sarebbe maturo un intervento approfondito sul nodo del cosiddetto circuito mediatico- giudiziario, ma appunto c’è stata una scelta deliberata, da parte di quasi tutte le forze politiche, di non esporsi.

Anche per non scontrarsi con le toghe, come sarebbe potuto avvenire sul sistema elettorale del Csm?

Non credo che l’equilibrio tra togati e laici sia l’aspetto più urgente. Lo sono piuttosto il funzionamento della sezione disciplinare del consiglio e le norme sull’attività delle Procure. E qui entra in gioco l’efficienza, che dovrebbe essere il primo obiettivo della politica rispetto alla giustizia. Non mi riferisco solo all’ambito civile: io credo che se si analizzassero le statistiche si scoprirebbe che la percentuale di notizie di reato perseguite fino a una sentenza di condanna è molto bassa, forse inferiore al 10 per cento. Tra archiviazioni, proscioglimenti e soprattutto prescrizioni, siamo di fronte a una funzione dello Stato che va a segno in un caso su dieci. Se si trattasse di qualunque altro campo della pubblica amministrazione, non ce ne occuperemmo con urgenza?

Il professor Guzzetta, in un’intervista al Dubbio, suggerisce di andare a rileggere i verbali della Costituente per verificare con quale spirito laico vi si affrontarono i temi della giustizia, compresa la separazione delle carriere.

È evidente che il tono del confronto, nell’Assemblea costituente, è stato esemplare per serenità e spessore. Ed è verissimo che la separazione delle carriere non dovrebbe più essere guardata, come è avvenuto negli ultimi vent’anni, come un tabù: credo che oggi non lo sia più, innanzitutto dal punto di vista di tanti magistrati che non esplicitano la loro valutazione per non entrare in conflitto con chi, tra i colleghi, è nettamente contrario.

All’inaugurazione dell’anno giudiziario, il presidente del Cnf Andrea Mascherin ha richiamato la necessità di un’affermazione esplicita, nella Costituzione, della libertà è dell’indipendenza dell’avvocato. Cosa pensa di questa proposta?

Seppure il principio dell’indipendenza dell’avvocatura sia sotteso in articoli come il 24, il 101 e il 111, non vedo perché si debba essere contrari. Vedo una preoccupante inibizione della politica nell’affrontare qualsiasi possibile riforma istituzionale, nonostante sia opportuno chiedersi se si vuole rafforzare la forma di governo parlamentare o se sia possibile aprire a una modifica semipresidenziale. Così come sarebbero possibili e necessari tanti interventi subcostituzionali. Non ci resta che incrociare le dita e confidare che l’afasia degli ultimi tempi lasci spazio a un po’ di coraggio.