Goffredo Buccini ci era andato giù pesante, usando frasi che poco lasciavano all’immaginazione. «I sindaci dei comuni calabresi sciolti per mafia non si rivoltano contro la ‘ ndrangheta ma contro lo Stato», scriveva il 7 dicembre scorso sul Corriere della Sera, raccontando la decisione di 51 sindaci della città metropolitana di Reggio Calabria di scrivere al ministro dell’Interno, Marco Minniti, chiedendo un incontro per discutere degli scioglimenti delle amministrazioni per infiltrazioni mafiose. Parole così pesanti da indurre, oggi, a presentare una querela per diffamazione nei confronti del giornalista del Corriere, dopo aver chiesto, invano, una rettifica.

I 51 «sindaci ribelli» lo hanno annunciato lunedì, nel corso di una conferenza stampa che è servita per contestare punto su punto «le affermazioni diffamatorie» di Buccini. Perché loro, hanno spiegato i primi cittadini, altro scopo non avevano se non discutere «civilmente ed in modo costruttivo di principi democratici e di leale collaborazione, sia pure in posizione vigile, fra i diversi pezzi dello Stato». Una richiesta accolta sia dal Ministro dell’Interno sia dal Prefetto, che hanno concordato un incontro per il 5 dicembre scorso ( al quale, però, Minniti non ha poi partecipato). L’idea era quella di partecipare ad un processo di revisione di quelle norme «che in qualche modo occludono ogni spazio democratico», aveva spiegato il sindaco di Roghudi, Pierpaolo Zavettieri. La legge, aveva evidenziato dopo aver incontrato il Prefetto di Reggio Calabria, s’inceppa quando consente agli organi di prefettura di intervenire senza nessuna forma di contraddittorio, «senza nessuna possibili- tà che vengano comprovati gli elementi posti a carico degli amministratori e attraverso i quali vengono poi applicati gli scioglimenti per i consigli comunali, così come le interdittive alle imprese». Assieme a ciò, i sindaci chiedevano anche eventuali interventi sul sistema burocratico: non allo scopo di scaricare le responsabilità politiche, aggiungeva Zavettieri, ma per affiancare i funzionari, azione «che non penalizzerebbe la democrazia». Gli organi politici sono infatti espressione del popolo, al contrario degli uffici, che hanno tempi di rinnovamento molto più lenti. Un concetto fondamentale, anche alla luce della sentenza con la quale il Consiglio di Stato ha respinto la richiesta di annullamento dello scioglimento dell’amministrazione di Marina di Gioiosa Ionica, caduta, nel 2011 a seguito dell’arresto del sindaco e di tre assessori in un blitz antimafia.

Questi ultimi, oggi, sono stati assolti definitivamente, mentre la posizione dell’ex sindaco deve essere rivalutata da un nuovo processo d’appello. Ma nonostante non ci siano prove dell’eventuale «sussistenza di uno stabile inserimento nell’associazione mafiosa dei soggetti coinvolti», il Consiglio di Stato valorizza proprio ciò che per la Cassazione non era risultato prova di una contaminazione mafiosa: la «rete di rapporti stabili tra questi ( gli amministratori, ndr) e gli appartenenti alla criminalità locale». Perché, si legge ancora nella sentenza, ciò che conta «non sono gli aspetti di rilevanza penale», bensì «la tendenza dell’attività degli organi politici a non porre in essere ciò che era loro compito nel dare luogo ad un’opera di vigilanza e controllo dell’apparato burocratico, al fine di evitare ingerenze da parte della criminalità organizzata». I sindaci, dunque, sono indignati. In primis per il titolo in prima pagina: “I 51 Comuni sciolti per mafia che si ribellano ai commissari” e “Quei 51 Comuni calabresi divisi tra Stato e Mafia”, nonostante nessuno dei firmatari della lettera indirizzata a Minniti sia mai finito in una relazione di scioglimento per mafia. Ci sono, poi, quei riferimenti a “consigliere comunali fidanzate di presunti padrini e membri della maggioranza in manette”, accusa, dicono i sindaci querelanti, «destituita da ogni fondamento». Offensiva, scrivono nell’atto di querela affidato all’avvocato Gianpaolo Catanzariti, è poi la presunta rivolta allo Stato e non contro la ‘ ndrangheta. «Gli eletti dei comuni replicano che non solo non sono stati sciolti per mafia - si legge - ma soprattutto non hanno praticato o favorito nessuna azione di rivolta, ma sono stati semmai convocati dal Prefetto di Reggio Calabria dal quale garbatamente si sono prontamente recati. Appare superflua aggiungono - la precisazione che tutti i firmatari aborrono la ‘ ndrangheta e ogni forma di violenza e prevaricazione che va contrastata».

Ma la parte peggiore, per i primi cittadini, è quella in cui viene effettuato un parallelismo tra i reggini in fila in prefettura a firmare il registro di cittadinanza consapevole contro la ‘ ndrangheta e la «rivolta» dei sindaci al piano di sopra. «Non poteva esserci nessuna rivolta - spiegano - in quanto convocati ufficialmente dal Prefetto, testimone al di sopra di ogni sospetto e per di più anche al piano terra e non a quello “di sopra”». Da qui la decisione di querela, non prima, però, di aver formalizzato una richiesta alla redazione del Corriere della Sera di rettifica o replica. Richiesta rimasta, però, «senza risposta».