Fake news, video violenti, contenziosi fiscali e giudiziari che hanno messo l’Europa e gli Stati Uniti alle calcagna dei colossi della rete. È stato un anno difficile per Google, Facebook e Youtube, che finiti nel mirino di tutti per aver alimentato il linguaggio dell’odio, provano a voltare pagina nel 2018. Se non per amore, per interesse. Negli ultimi anni il mercato della pubblicità online si è trasformato nel duopolio di Mountain View e Manlo Parl, che sono riusciti a conquistare il 70 per cento del mercato pubblicitario anche grazie a politiche sin troppo lassiste: sono milioni e milioni i clic e i guadagni generati dal circolo vizioso dei video violenti. Ma alla lunga, il metodo di raccolta pubblicitaria indifferenziato che ha accostato spesso i grandi marchi a clip che inneggiavano all’odio e al bullismo, ha destato forti polemiche politiche e la fuga di investitori di peso.

Basti pensare, ad esempio, alla scelta di lasciare YouTube, adottata a marzo scorso da marchi come T & T, Johnson & Johnson Verizon, e Disney, indispettiti dopo aver scoperto che i loro annunci accompagnavano video che inneggiavano al nazismo, che avevano circolato liberamente sulla piattaforma per quattro mesi senza alcun intervento degli operatori.

Ma la classica palla di neve, è diventata un’autentica slavina quando il Times ha denunciato che le pubblicità del governo britannico e di svariate società multinazionali di Sua Maestà erano state trasmesse su siti di istigazione all’odio e di aperto sostegno all’Isis. In men che non si dica, si sono a quel punto volatilizzate dalla piattaforma ben 250 aziende, tra cui anche General Motors, Pepsi Cola, e McDonald’s, per un danno complessivo stimato in 750 milioni di euro. Invertire la rotta, a fronte di un servi- zio che ogni sessanta minuti consente di sfornare quattrocento ore di video in tutto il mondo, era ormai una necessità ineludibile. Specie perché non era ormai più ammissibile che anche nella sezione Kids di YouTube, si potesse vedere Spider- Man urinare nella vasca da bagno della protagonista del film Frozen, Mickey Mouse in una pozza di sangue investito da un’auto, o i personaggi di una serie di animazione in subbuglio ormonale all’interno di uno strip club. E così, a fare da apripista della svolta del 2018 è stata Facebook, finito nell’occhio del ciclone per essere stato usato come mezzo di propaganda dall’amministrazione Trump, per le tasse non pagate, e non da ultimo per alcune gravi dichiarazioni di membri apicali del suo team, come l’ex manager Chamath Palihapitiya: «Facebook sta facendo a pezzi la nostra società». Dopo mesi di polemiche, il vicepresidente delle Operazioni globali di Manlo Park, Justin Osofsky, ha annunciato che la squadra che si occupa di monitorare i video di casa Zuckerberg verrà raddoppiata nel 2018, con l’assunzione di altri 10mila revisori pronti a moderare post e clip violente. L’azienda ha fatto sapere che sarà inoltre introdotto contro lo stalking un sistema, chiamato snooze, che consentirà di bloccare temporaneamente persone indesiderate ( come gli ex), e un sistema di monitoraggio degli indirizzi Ip che proverà ad arrestare i molestatori che raggiungono spesso la vittima grazie a nuovi profili fasulli. Un annuncio solenne, che tenta però di tenere a bada milioni di genitori preoccupati dal lancio imminente di Messenger Kids, il servizio di messaggistica Facebook, agli albori negli Stati Uniti, che apre le porte dei social anche ai minori di tredici anni. Si tratta di un client, cioè di un’app collegata al profilo di mamma o papà, che consentirà ai piccoli di chattare grazie all’autorizzazione dei genitori. E che tuttavia non è esente da rischi. Anzi. Tutto da rifare anche sul fronte delle fake- news. Le “disputed flags”, ossia i segnali in rosso impressi sulle notizie fasulle introdotte da Facebook e affidati a organi- smi specializzati in fact checking, si sono infatti dimostrate un fiasco clamoroso: anche se sono riuscite a rallentare il numero di condivisioni, hanno infatti incrementato i lettori di bufale, ancora più eccitati dal presunto clima di censura. Nel tentativo di mettere una toppa, l’azienda di Zuckerberg ricorrerà agli articoli correlati, che consentiranno agli utenti di mettere a confronto la stessa notizia, attinta da più fonti.

Sull’altra sponda della Silicon Valley, non si è fatta attendere neanche la risposta di Google. Incassato il knock out d’immagine, che ha portato via da YouTube anche colossi come Etihad, Marriot e Deliveroo, ma anche il partito laburista britannico, big G ha deciso a sua volta di intraprendere un restyling di YouTube, nel tentativo di riportare a casa gli investitori perduti. Anche in questo caso, come annunciato dal ceo della piattaforma video, Susan Wojcicki, arriveranno in azienda 10mila nuovi addetti incaricati di valutare i contenuti pubblicati sul network e di addestrare la macchina che presiede all’individuazione dei contenuti violenti, chiamata, con eco kubrickiana, Al.

Gli algoritmi di apprendimento automatico implementati nella piattaforma a giugno, hanno consentito di rimuovere infatti poco più di 150mila video, e di supplire a un lavoro che avrebbe reso necessario l’apporto di 180mila persone per 40 settimane. Ma nell’oceano di YouTube, 150mila video rimossi sono poco più che un’inezia. E così, per combattere l’odio, si riparte dagli umani. Comprendere la modestia di certi risultati, è d’altra parte piuttosto semplice, se solo si coglie la fallimentare impostazione di Al. Alcuni dipendenti di Google hanno infatti rivelato che l’algoritmo non fa una vera cernita “etica”, ma puramente qualitativa. La piattaforma premia in pratica i video di buon livello, che mostrano un buon montaggio e una sapiente regia: in pratica un lasciapassare per la fucina dell’Isis, che per anni ha imperversato su YouTube grazie a clip di propaganda che hanno sorpreso gli analisti internazionali per l’alto grado di specializzazione. Nell’era in cui l’opera d’odio è entrata nella stagione della sua riproducibilità tecnica, un fatto davvero inammissibile che ha prodotto un mutamento epocale. Dopo anni di irresponsabilità dichiarata, i colossi del web accettano di dover vigilare sui propri contenuti. E che non tutto è pubblicabile in nome del clic. L’entità liquida dei social, diventa entità sociale che alla società può e deve rispondere. Se non per amore, per interesse.