Nel film La parte degli angeli di Ken Loach, ambientato in Scozia, c’è un giovane ragazzo, Robbie, con il passato da teppista, che riduce su una sedia a rotelle un suo coetaneo per un diverbio stradale. Per lui non c’è la punizione carceraria, ma un percorso in comunità per fare lavori socialmente utili che inizia dopo un toccante incontro con la madre della vittima, che in presenza di funzionari della giustizia e dei servizi sociali lo apostrofa disperata: «Vedi come hai ridotto mio figlio? Ti rendi conto?». A quel punto Robbie ha una reazione disperata, piange, si mette la mano tra i capelli, trema. Robbie si è reso conto del male che ha fatto.

Ken Loach punta il suo film su una fase importante della “giustizia riparativa”. Stando agli studi in materia, quest’istituto giuridico, abbatte in modo sensibile il rischio di recidiva. Ma non solo. La giustizia riparativa considera il reato come un danno alla persona e ne pone il rimedio in capo all’autore. Il Garante nazionale per i diritti dei detenuti Mauro Palma aveva spiegato a Il Dubbio che la “giustizia riparativa” «fa in modo che si può rispondere alla commissione di un male predisponendo un percorso che faccia acquisire consapevolezza e si riannodi quel filo sociale che con la commissione del reato si è reciso». C’è una convinzione collettiva che il crimine sia un’offesa contro lo Stato, che le persone che commettono un reato debbano essere punite esclusivamente con la detenzione carceraria e che le decisioni sul come trattare gli autori di reato debbano essere eseguite da parte di amministratori della giustizia attraverso un procedimento legale formale. Ciò che è incredibile della “giustizia riparativa” è che modifica tutte queste assunzioni: essa vede infatti il crimine non come un’offesa contro lo Stato, ma come un danno alle persone e alle relazioni e, invece di punire gli autori del reato esclusivamente con la galera, si preoccupa di riparare il dolore inflitto dalla commissione del crimine. Non solo viene presa in considerazione la vittima, ma anche tutte le vittime del reato specifico. Sempre Mauro Palma, a il Dubbio, aveva fatto l’esempio di chi si è macchiato di volenza sessuale. L’incontro non deve avvenire necessariamente con la sua vittima, ma con un gruppo di persone vittime di tale violenza. Le vittime e l’autore del reato possono così ricoprire un ruolo attivo, così come la collettività, che può sostenere la vittima e aiutare l’autore di reato ad attenersi agli accordi presi per la riparazione del danno.

L’ESPERIENZA ITALIANA

La “giustizia riparativa” non è esplicitamente contemplata dall’attuale ordinamento penitenziario, quindi è ancora di nicchia. Per questo c’è un decreto - che intende valorizzarla e inserirla nero su bianco nell’ordinamento - elaborato dalle commissioni, istituite dal ministro della Giustizia Orlando e prontamente visionate dall’ufficio del Garante Nazionale, che dovranno passare al vaglio del Consiglio dei ministri per poi attuare in pieno la riforma dell’ordinamento penitenziario. Se a livello internazionale i riferimenti normativi più importanti sono la Raccomandazione del 1999 del Consiglio d’Europa sulla mediazione in materia penale, la Risoluzione dell’Onu del 2002 e la direttiva europea del 2012, anche in Italia qualcosa si è mosso nel recente passato. Nel 2002 il ministero della Giustizia ha istituito una Commissione di studio sulla “Mediazione penale e la giustizia riparativa” che nel 2005 ha emanato le Linee di indirizzo sull’applicazione della “giustizia riparativa” e della mediazione reo/ vittima nell’ambito dell’esecuzione penale di condannati adulti.

In Italia le pratiche di “giustizia riparativa” nell’am- bito dell’esecuzione della pena sono ancora in via di sperimentazione. Concretamente, da qualche anno sono in corso alcune sperimentazioni di incontri di mediazione reo/ vittima mediante l’intervento di un terzo indipendente rispetto agli operatori deputati al trattamento, su autorizzazione specifica del ministero attraverso la stipula di convenzioni ad hoc con centri e uffici di mediazione sparsi sul territorio nazionale. Queste attività devono necessariamente conservare le caratteristiche loro proprie legate ai principi di confidenzialità, volontarietà e gratuità degli interventi. Un esempio virtuoso è il “Progetto Sicomoro”, patrocinato dal ministero della Giustizia. Il nome si ispira al brano evangelico in cui Zaccheo si nasconde fra i rami dell’albero, ma viene riconosciuto da Gesù, che lo chiama per nome e suscita in lui un ravvedimento. Parliamo di una iniziativa promossa dalla Prison Fellowship Italia Onlus, che dal 2009 intende supportare migliaia di detenuti di alcune carceri italiane per favorirne il reinserimento sociale. Concetti chiave per una completa descrizione del Progetto sono quelli di avvicinamento e di comprensione reciproca. In concreto, esso si è sostanziato in otto incontri settimanali tra condannati definitivi e vittime non dirette. In ogni occasione è stato promosso l’approfondimento di tematiche quali quella del perdono, del pentimento, della responsabilità, della riparazione e della riconciliazione, che si sono ritenute utili a favorire un sincero confronto tra le parti coinvolte. Le sessioni hanno consentito a vittime e rei di raccontarsi, di mostrarsi nell’intimità delle loro ferite e delle loro debolezze, e dunque di conoscersi e di riconoscersi l’uno nell’altro.

NELSON MANDELA

Sì è capito che la “giustizia riparativa” supera l’idea della sanzione come pena e mira a ricostruire una relazione tra le persone coinvolte, vittime e colpevole. Il pioniere di questo nuovo modo di fare giustizia è stato Nelson Mandela. Con la sua elezione ne 1994 si segnò la fine della politica di segregazione razziale istituita dalla popolazione bianca ( gli afrikaner) nei confronti della popolazione nera, ovvero la fine dell’apartheid. Nonostante la dichiarazione della fine di questo regime, il paese era inevitabilmente diviso e lacerato dalle violenze degli anni passati. Per costruire un nuovo stato, una nuova comunità, era necessario costruire una nuova identità collettiva. Perché questo fosse possibile vennero istituite le Commissioni di Verità e Riconciliazione. La Commissione di Verità e Riconciliazione fu essenzialmente un tribunale ( composto da tre comitati) che aveva lo scopo di raccogliere le testimonianze delle vittime e degli autori dei crimini commessi da entrambe le parti durante il regime e concedere il perdono ( attraverso l’amnistia) per le azioni svolte durante il periodo dell’apartheid. Andare di fronte alla Commissione post apartheid per confessare azioni commesse e sofferenze subite è stato il modo per riaccendere le relazioni con la comunità di cui si è parte. Quel ristabilire relazioni si fa giustizia concreta, non ha bisogno di pene e indica la determinazione nel tornare a camminare insieme.