«Nel mio settore, il civile, verifico come vi sia una competizione tra gli avvocati legata purtroppo al restringersi degli spazi di mercato, per il numero dei professionisti ma anche per i compensi a volte prossimi alla gratuità. Allora, in un contesto del genere, immagino quale possa essere la discriminazione nei confronti delle avvocate, a maggior ragione se scelgono di diventare madri». Silvia Albano è giudice presso il Tribunale di Roma. Ma è soprattutto espressione coerente di una cultura progressista della magistratura declinata al femminile: fa parte della giunta esecutiva centrale dell’Anm insediatasi nella primavera del 2016, e vi rappresenta la componente di “Area”, quella appunto delle toghe progressiste. Anche in virtù di questa chiara connotazione culturale, si spiega evidentemente il suo giudizio favorevole sulla norma che ricono- scerebbe lo specifico diritto al legittimo impedimento per le avvocate in gravidanza. La disciplina è stata messa a punto dal Consiglio nazionale forense e valutata in un “tavolo” tra avvocatura istituzionale e ministero della Giustizia voluto dal guardasigilli Andrea Orlando. In queste ore è all’esame della commissione Bilancio della Camera, sotto forma di emendamento alla Manovra presentato dalla deputata ( e avvocata) Nunzia De Girolamo.

Non ci sono dubbi, dunque: lei, magistrata e componente dell’Anm, è favorevole alla legge per le avvocate.

Certamente sì. Esiste nella prassi un’assai frequente applicazione della norma generale sul legittimo impedimento del difensore ai casi in cui un’avvocata è in gravidanza o in maternità. Ma il fatto che tale prassi sia legata a protocolli d’intesa stipulati certo non in tutti Tribunali d’Italia, e che permanga dunque un’oggetiva incertezza sul diritto, richiede senz’altro una norma specifica che assicuri tale diritto a tutte.

Forse sorprende che una norma del genere non sia prevista già.

Siamo effettivamente in ritardo. Ma non credo lo siamo solo rispetto al legittimo impedimento. Di certo esiste uno scarto, uno svantaggio per le lavoratrici autonome, in materia di tutela della maternità. Una questione che riguarda eccome le avvocate, e su un piano complessivo, appunto.

Decidere di diventare madri rischia di incidere come una penalizzazione in termini economici e addirittura sull’andamento della carriera. Credo esista dunque anche l’esigenza di uno specifico sostegno economico per la libera professionista che, nel corso della maternità, deve rinunciare a svolgere a pieno la professione. Non solo durante la gravidanza e l’allattamento ma per tutti i primissimi anni di vita dei bambini. Ecco, vorrei però che l’argomento sollevato non mettesse in ombra quello del legittimo impedimento.

Da quale punto di vista?

Vorrei fosse chiaro che l’eventuale introduzione di una norma sul legittimo impedimento delle avvocate in maternità sarebbe, a mio giudizio, un primo importante segnale innanzitutto in termini culturali.

La politica è stata disattenta, negli scorsi anni, rispetto al lavoro autonomo, a partire dall’abolizione delle tariffe minime?

Probabilmente sì, ed è avvenuto in un quadro di deregolamentazione del mercato del lavoro in cui credo siano state smantellate molte delle tutele previste per i lavoratori in generale. Ritengo sia sensato che, nel cominciare a invertire la tendenza, si abbia particolare riguardo per la maternità.

Crede che il consenso a una tutela per le avvocate sia ampiamente condiviso, all’interno della magistratura?

Posso dire che l’Associazione nazionale magistrati è sensibile al tema delle pari opportunità non solo per la magistratura ma per tutti gli operatori del sistema giustizia, quindi anche per il personale amministrativo e l’avvocatura, che è soggetto imprescindibile del sistema giudiziario.

Forse l’evidente, ritrovata sintonia tra magistrati e avvocati non è percepita a pieno all’esterno del sistema giustizia.

A dire il vero credo che tale percezione cominci ad esserci. E in ogni caso l’attenzione dell’Anm nei confronti dell’avvocatura c’è, così come c’è l’attenzione della nostra commissione Pari opportunità rispetto ai temi di cui parliamo.

Le difficoltà vissute dalla professione forense in seguito alle “deregulation” di cui sopra hanno inciso sulla qualità del servizio giustizia?

Temo si tratti di un quesito al quale non sia possibile rispondere in maniera sintetica. Mi limito a una considerazione relativa sempre al tema delle pari opportunità: in particolare per l’ambito di mia competenza, quello civile, il fatto che ci sia un numero molto elevato di avvocati, e che i compensi si siano livellati verso il basso, non solo può fare in modo che si determini una sorta di far west con inevitabile compromissione della qualità, ma crea anche il rischio che a pagare più di tutti questa condizione difficile siano le figure più deboli, le donne innanzitutto.

C’è finalmente il segnale dell’equo compenso, che sembra una svolta rispetto al fenomeno.

Devo dire che qualche altro precedente pur raro, intervento normativo si era mosso nella stessa direzione: tutelare i giovani e i più deboli. Penso alle norme sui praticanti avvocati. Resta però il rischio che la condizione della donna continui a essere esposta a una maggiore vulnerabilità. È giusto dunque intervenire con misure come quella sul legittimo impedimento che evitino di trasformare in svantaggio la scelta di diventare madri.