La sinistra per rinascere dovrebbe saltare almeno «un giro elettorale». Fausto Bertinotti è convinto che tutte le proposte politiche in campo, fuori dal Pd, soffrano di un vizio d’analisi imperdonabile: il governo a ogni costo. Una prospettiva che costringe la sinistra «in una prigione» da cui è impossibile uscire senza ribaltare lo schema.

Presidente, partiamo dal tentativo fallito di Pisapia di unire il centrosinistra. Si aspettava che avrebbe gettato la spugna? Faccio una premessa, altrimenti tutti i miei giudizi risultano fuorvianti: io guardo a queste vicende come a una realtà lontana ed estranea a ciò che io considero necessario alla politica. Ciò che avviene sulla scena della rappresentanza delle forze della sinistra istituzionale non può portare a nulla di positivo per il destino della sinistra. La scena su cui si esercita la politica delle alleanze è inquinata, ci si muove dentro a una prigione.

Inquinata da cosa? Dalla morte della sinistra istituzionale che ha depositato i residui sul terreno, rendendolo inquinato. Non c’è niente da fare. La sinistra può rinascere solo fuori da questo recinto.

Cosa intende con sinistra istituzionale? La sinistra reale che occupa oggi la scena, anche se il termine sinistra risulta inutilizzabile. La sinistra ha subito una mutazione genetica che l’ha trasformata irrimediabilmente. È un problema enorme, basti guardare alla gerarchia delle priorità: governo, assunzione cioè del paradigma della governabilità; centralità della presenza politica solo sul terreno della democrazia rappresentativa; costituzione del soggetto politico; e infine la società. Questa gerarchia è mortifera, andrebbe completamente rovesciata. Il governo è stata una grande opportunità ma oggi si rivela nel suo contrario. Facciamo un esempio: la Spd tedesca. Per un partito in crisi drammatica l’unica ricetta per rinascere poteva essere il ricostituente dell’opposizione. Il ritorno alla grande coalizione equivale al ritorno nella tomba. Il problema è che la democrazia rappresentativa non è più centrale. Oggi il Parlamento è la cassa di risonanza del governo, non ha nessun appeal. Le elezioni sono diventate, come diceva Sartre, un’attività seriale, priva di qualunque incidenza sulla vita delle persone. È così vero che metà della popolazione non va a votare. E la sinistra reale si comporta come se questo elemento non ci fosse.

Il progetto di Pisapia non ha tenuto conto di questo elemento? È un vizio che riguarda tutta la sinistra. In termini diversi e con diversi gradi questa è la cultura delle sinistre istituzionali, si differenziano solo per il tasso di adesione a questa concezione. Non c’è nessuna forza di sinistra che pensa di rinascere fuori da questo campo, come invece hanno fatto altri soggetti in Europa come Podemos. Il fallimento delle alleanze a sinistra non è il prodotto delle caratteristiche psicopolitiche dei dirigenti, ma della natura del progetto: un’alleanza elettorale solo per influenzare il governo è un delirio. Se sei nel deserto devi dotarti di una risorsa per poterlo attraversare, non inseguire il miraggio. Per questa ragione sono convinto che sarebbe stato meglio saltare questo giro elettorale. Solo così si può ricostruire la gerarchia delle priorità: conflitto, soggettività politica, rappresentanza e poi, semmai, il governo.

Quando è iniziata questa mutazione genetica? A mio avviso inizia grosso modo all’inizio degli anni Ottanta, quando le borghesie si ribellano e puntano alla demolizione del ciclo inaugurato nel ‘ 68 e la sinistra risponde in maniera inadeguata a questa controffensiva. Lì muore la sinistra come espressione del movimento operaio.

La sinistra ha bisogno di stare nel conflitto per definirsi tale? Esattamente. O la sinistra è una parte del conflitto, in contrapposizione a un’altra, o non è.

E la sinistra che si organizza attorno a Piero Grasso che sinistra è? Non c’è un paradigma diverso rispetto a quello che attraversa il Pd, non ci sono soggetti in grado di fuoriuscire dalla mutazione genetica. E infatti si definiscono per differenza da Renzi, non per alternativa di visione sociale. Ci sono varie formazioni, ma come mai nessuna si chiama sinistra? C’è un senso di colpa dichiararsi di sinistra?

Dicono dipenda dalla necessità di allargare il campo... Senza rendersi conto che il campo che ambiscono ad allargare è quello inquinato. La maggioranza del popolo sta fuori da questo recinto.

Ci sono somiglianze tra Liberi e Uguali e la sua Sinistra arcobaleno? No, perché la sinistra arcobaleno, per quanto disastrosa, poggiava su una resistenza lungamente praticata. È vero, venivamo da una brutta esperienza di governo che ci aveva logorato, ma prima noi eravamo a Genova, nei movimenti altermondisti, in quelli pacifisti, eravamo dentro al conflitto. A differenza di Liberi e Uguali che non ha nessuna di queste radici, nessuna esperienza di scontro praticato. Basti pensare che il più grande movimento degli ultimi anni, quello delle donne, non è mai entrato neanche per sbaglio nell’agenda politica. O ancora, per la prima volta in Italia c’è uno sciopero in un luogo che sembrava precluso al conflitto, Amazon, qualcuno se n’è occupato? No, dobbiamo pensare alle alleanza secondo l’agenda parlamentare.

Quindi crede che lo scontro tra Pd e Liberi e Uguali sia solo tattico? Lo scontro c’è ma è all’interno di un campo arido. Un tempo c’erano due sinistre con due approcci diversi: da una parte i blairiani e dall’altra gli antagonisti, grosso modo. Oggi ci sono due centrosinistra: uno che vuole governare in continuità con i precedenti esecutivi e uno che si candida a governare secondo una logica emendativa rispetto al passato. I secondi si rifanno al ritorno alle origini del centrosinistra ma chi rimpiange quella stagione non si rende conto che rimpiange l’origine dell’eutanasia della sinistra.

Ma c’era anche la sua Rifondazione in quel centrosinistra... No, abbiamo sostenuto governi di centrosinistra ma non facevamo parte del centrosinistra. Abbiamo sempre rifiutato quella cultura politica della governabilità. La rottura con Prodi da dove nasce se non da questo? La cultura prodiana non c’è mai appartenuta.

Avete partecipato al secondo governo Prodi... Abbiamo sempre avuto in mente la centralità del conflitto e l’idea rispetto al governo è sempre stata strumentale. Ricordo che il primo Prodi condusse un’intera campagna elettorale contro di noi ma non aveva i numeri per governare. Fu costretto ad accettare il soccorso rosso. Noi sostenemmo il suo esecutivo senza entrarci, senza un ministro, senza un sottosegretario, senza un usciere.

In altre occasioni, alle Politiche del 2001, Rifondazione decise una desistenza unilaterale. Per quale motivo? C’era una legge elettorale asimmetrica. Alla Camera era consentito il voto disgiunto e al Senato no. Al Senato ci candidammo dappertutto, ma alla Camera decidemmo di presentarci solo al proporzionale e non nei collegi uninominali, per non favorire le destre. Era un atto unilaterale per ridurre il danno. Un gesto di generosità irripetibile.

Invece Liberi e Uguali e Pd si faranno la guerra. I bersaniani non escludono di aprire un dialogo col Movimento 5 Stelle dopo il voto... Il Pd di Bersani tentò già quel percorso. È un meccanismo in qualche modo scontato. Con questo sistema elettorale bisogna farsi piacere gli altri per tentare delle alleanze. Ma è un meccanismo figlio di un errore politico di partenza: il governo a ogni costo.

Liberi e Uguali è il partito di D’Alema o di Piero Grasso? Proporrei per un momento di fare a meno concettualmente di Massimo D’Alema. E proverei anche a pensare meno a Piero Grasso, nonostante lo stimi molto. Vedo una sinistra che si presenta sulla scena abdicando alla sua identità politica. L’idea per cui bisogna portare a termine un’operazione mimetica per presentarsi all’elettorato, attraverso uno schermo ieri Prodi, oggi Grasso - è sinonimo di debolezza. Chiamare qualcuno d’oltrefrontiera, in questo caso un ex magistrato, a rappresentarti è una manifestazione di fragilità.