La sinistra perde pezzi e soprattutto consenso. Non sa più chi è, cosa deve essere. Come in mezzo a un guado non sa se andare avanti o tornare indietro. L’esperimento fallito o almeno interrotto di Renzi ha incoraggiato il ricomporsi d’un blocco socialdemocratico che affida le sue sorti a un magistrato, Renzi fa loro gli auguri ma risponde che sulla riforma del lavoro non si torna indietro, intanto però si sgancia anche Pisapia, perché in nome della realpolitik lo Ius soli è stato di fatto derubricato dall’agenda di fine legislatura. Ma questa è cronaca di palazzo, nella società, nel mondo del lavoro, nelle periferie, là dove la sinistra fino a un paio di decenni fa c’era e svolgeva un ruolo egemonico, adesso non c’è più. Perché? Cosa è accaduto? Sociologo, docente di analisi dei dati all’università di Torino, Luca Ricolfi è un ricercatore che lascia parlare dati, numeri e fatti senza piegarli a un teorema ideologico stabilito a priori. Al campo liberal e progressista dedica libri che ai destinatari non son risultati troppo graditi. Nel 2008 Ricolfi dedicò alla sinistra il suo Perché siamo antipatici ( Longanesi), descrivendo il complesso dei migliori che non ha mai smesso di affliggere il campo progressista. Adesso arriva l’altro affondo: Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi ( Longanesi, 288 pagine, 16,90 Euro). Qui Ricolfi, che non è un uomo di destra, spiega perché oltre ad essere antipatica la sinistra tradizionale è ormai anche priva di consenso. Ricolfi muove dalla constatazione dell’estinzione delle categorie di destra e sinistra, contestando però alla sinistra di avere usato fino ad oggi questa assiologia a suo favore come discrimine tra il bene e il male.

La maggiore responsabilità di questa divisione manichea riguarda, secondo Ricolfi, soprattutto Norberto Bobbio e in particolare un suo libro di successo di 90 pagine pubblicato nel 1994 dal titolo Destra e sinistra.

Un testo chiave dove il filosofo torinese sostiene che la sinistra rappresenta il progresso e dunque il bene, la destra la reazione e dunque il male. La sintesi è semplificatoria ma rispecchia il pensiero di Bobbio che scrive: “Proprio perché i due termini descrivono un antitesi, la connotazione positiva dell’uno implica necessariamente la connotazione negativa dell’altro. Ma quale dei due sia quello assiologicamente negativo non dipende dal significato descrittivo, ma da opposti giudizi di valore che vengono dati sulle cose descritte” Le cose descritte sono eguaglianza e libertà e di queste due idee solo la sinistra, per Bobbio, è la legittima proprietaria. Non solo: siccome eguaglianza e libertà sono i massimi ideali che l’umanità si è data c’è una sola parte politica, la sua, che li incarna entrambi; le altre posizioni politiche sono fuorigioco. Per Bobbio la destra moderata, per dire, è solo conservazione: il suo unico merito è accettare la democrazia. Uno schematismo manicheo secondo Ricolfi che non ha certo aiutato la sinistra a orientarsi nel mondo nuovo ma l’ha bloccata in un riflesso narcisistico e autocompiaciuto di rappresentare comunque la parte giusta, il reale movimento delle cose, il progresso e l’emancipazione, qualsiasi cosa queste cose vogliano dire. Il problema è che, nell’era della globalizzazione, non c’è un solo discrimine ma ve ne sono due. Il discrimine più importante – sostiene infatti Ricolfi è fra forze dell’apertura, che accettano o promuovono ogni tipo di scambi ( merci, servizi, capitali, informazioni), e forze della chiusura che invece invocano qualche tipo di chiusura, economica o sociale, comunque basata sull’idea che gli stati debbano riprendersi alcune prerogative, dal controllo delle frontiere a quello della moneta. In questo quadro il discrimine fra destra e sinistra resta, ma assume un carattere più sfumato, e soprattutto è trasversale alla dicotomia fra forze dell’apertura e forze della chiusura. In entrambi i campi sinistra significa una maggiore attenzione ai diritti e alla lotta alle diseguaglianze, destra significa maggiore attenzione ai doveri, alla tradizione e alla difesa della libertà, soprattutto in campo economico. Ma è piuttosto comune che questi più o meno nobili ideali subiscano contaminazioni e ibridazioni: la sinistra, ad esempio, sta sempre più diventando la paladina dei garantiti e dei ceti medi, la destra oscilla tuttora fra il polo conservatore e quello liberista.

Il divorzio tra sinistra e popolo tuttavia non nasce recentemente. Ricolfi lo fa addirittura risalire agli anni sessanta del Novecento con l’inizio della crisi dell’era del welfare. Il punto di svolta, l’arco temporale in cui è avvenuta l’inversione di tendenza, viene collocato da Ricolfi fra il 1970 e il 1975. Nel biennio 70- 71 il tasso di crescita delle economie avanzate subisce un rallentamento per poi precipitare nel biennio 74- 75, l’anno della prima recessione globale del secondo dopoguerra. Da allora non c’è più stato un periodo in cui le economie dei paesi avanzati siano tornate a crescere come negli anni centrali dell’età dell’oro: i decenni del secondo dopoguerra. “E da allora le istituzioni del welfare non sono più state le stesse, se non altro perché – con il passare degli anni – si è fatta sempre più strada l’idea che alla lunga non fossero sostenibili”. Tuttavia la fine dell’età dell’oro del welfare non coincide con il suo smantellamento. Anzi gli anni settanta, ricorda Ricolfi, sono anni di aspettative crescenti in tutta la sfera occidentale del pianeta. Le richieste dei cittadini nei confronti dello Stato si moltiplicano e la risposta dei governi è positiva anche se in deficit: più servizi sanitari, più sussidi, più istruzione. Insomma la crisi fiscale dello stato, che intanto è acclarata, non ne provoca lo smantellamento anzi ne segna il suo trionfo, “e questo nonostante la torta del prodotto nazionale cresca sempre più lentamente impigliata com’è nelle spire della stagflazione”. Qual è il segreto? Semplice il trionfo del welfare viene finanziato dall’aumento della pressione fiscale, dalla spesa pubblica in deficit e dalla riduzione del peso degli investimenti pubblici sulla spesa totale dello stato. Si innesta così un circuito vizioso il cui risultato è che all’espansione della sfera pubblica e dello stato sociale non corrisponde un aumento altrettanto rapido e sufficiente del prodotto, dell’occupazione e dei consumi privati. La realtà presenterà presto il conto ovviamente. E infatti fra la fine degli anni settanta e i primi ottanta “vengono meno tutti i meccanismi che hanno surriscaldato gli anni della stagflazione: la disoccupazione raffredda le rivendicazioni salariali, i deficit pubblici raffreddano la domanda di welfare, la recessione raffredda i prezzi”. È il primo momento della regressione. Il secondo momento, ancora più devastante, arriva con l’avvento della globalizzazione dei mercati che fa entrare nel gioco della competizione gli esclusi dell’Asia e delle Americhe. E ancora una volta la sinistra liberal, che della globalizzazione si fa alfiere dopo essersi intestata l’espansione del welfare, prende il secondo fatale abbaglio. Dalla fede nella socialdemocrazia i liberal passano a quella nel mercato globale: un entusiasmo quello dell’unificazione del mondo sotto le insegne della libertà di mercato che porterà a sottovalutare i rischi di un processo di integrazione troppo rapido e soprattutto poco sorvegliato. Vengono liberalizzate le importazioni dall’estero mentre si ingessa il mercato interno con un surplus di regolamenti, vincoli e proibizioni. Per la verità Giulio Tremonti già nel 1995, l’anno di nascita del Wto, inascoltato aveva lanciato l’allarme: “I salari occidentali entrano in concorrenza con quelli orientali senza che i salariati orientali debbano immigrare e venire a lavorare nelle nostre fabbriche. Non occorre che gli operai si muovano. A muoversi ci pensano infatti i capitali occidentali che direttamente o indirettamente finanziano le fabbriche orientali. La convenienza a investire capitali dove la manodopera costa pochissimo fa infatti scattare su scala mondiale la concorrenza salariale”. Insomma i lavoratori occidentali si trovano stretti nella morsa tra salari orientalie costi occidentali. Del resto avrebbe dovuto mettere qualche sospetto il fatto che se per integrare il mercato europeo ci sono voluti alcuni decenni altrettanti se non di più ce ne sarebbero occorsi per trasformare l’intero mondo in un mercato unico con le adeguate prudenze, laddove invece per la globalizzazione sono bastati cinque anni. Di più: la liberalizzazione dei movimenti di capitali si è accompagnata a una imponente finanziarizzazione dell’economia con la rapida diffusione di nuovi strumenti di gestione delle transazioni. Da qui il terzo colpo: il ripetersi di bolle speculative e la crisi finanziaria globali. E così, scrive Ricolfi, “coltivato per due decenni nei più raffinati laboratori del pensiero progressista il sogno di una sinistra amica del mercato si trasforma in un incubo nel 2008, allo scoppio della crisi, quando ci si avvede che non si tratta di una normale recessione ma della crisi di un paradigma che la sinistra riformista aveva adottato dopo il 1989, abbagliata dai successi del capitalismo che ora tende a rinnegare”.

Il divorzio tra sinistra e realtà, tra sinistra e popolo dunque si è prodotto nell’arco di quasi mezzo secolo. Decenni in cui la sinistra di sistema ha oscillato come un pendolo cercando di assecondare le realtà che però intanto la lasciava sempre dall’altra parte, in ritardo, scoperta di tutto tranne che del proprio sussiego e snobismo: persuasa malgrado tutto d’essere dalla parte della ragione malgrado la realtà, in ciò confortata dalla lezione in fondo rassicurante di Norberto Bobbio. L’altra ragione, ulteriore all’incapacità di leggere la realtà e di farle fronte politicamente, per cui il popolo non trova più nella sinistra la sua voce e la sua espressione è ancora più semplice: l’establishment di sinistra non ama il popolo, disprezza profondamente la gente comune, di cui non capisce né le ansie né i drammi quotidiani considerati materia volgare rispetto alle problematiche dei ceti medi riflessivi. I quali sempre evocati non sono mai stati precisamente definiti tanto da lasciar immaginare che siano una cosa di mezzo tra gli impiegati statali e le professoresse che leggono Repubblica. La realtà, dice Ricolfi, è che la sinistra ha perduto la capacità d’analisi: con Machiavelli e Gramsci il senso reale delle cose; con Marx la percezione della struttura sociale continuando invece a ragionare “come se i problemi fossero rimasti quello del mondo sostanzialmente chiuso dei primi decenni del dopoguerra, quando l’ 80% del pilmondiale era prodotto da appena una ventina di paesi e la dinamica dell’economia dipendeva dalle decisioni di pochi leader”. La realtà invece è che la torta occidentale non aumenta più ma diminuisce a vista d’occhio e la sinistra non sa fare a meno della torta della crescita, perché da quella traeva l’idea della redistribuzione. Da qui la crisi della sinistra, crisi culturale e politica ma prima ancora crisi di rappresentanza. Da qui l’emersione prepotente dei populismi, fenomeno che la sinistra attribuisce alla destra non vedendo come molto consenso populista proviene proprio dai suoi ranghi. Se gli operai votano in Italia Lega o Cinquestelle o Marie Le Penin Francia – il fatto che il Fronte nazionale sia stato bloccato nell’ascesa all’Eliseo non toglie che sia la seconda forza francese – qualcosa vorrà pur dire. Come vorrà pur dire qualcosa che le forze populiste raccolgono consensi altissimi nei quartieri popolari, anche in grandi città come Roma e Torino un tempo roccaforti della sinistra. Certo al netto dello snobismo e della riottosità all’autocritica la soluzione del dilemma della sinistra non è affatto facile. La sinistra, per costituzione favorevole all’eguaglianza e all’internazionalismo, non può negare ai nuovi protagonisti della scena globale economica, l’accesso alle opportunità del mercato globale, ma al tempo stesso deve rispondere delle istanze dei popoli occidentali schiacciati dal dumping sociale e impoveriti da disoccupazione e delocalizzazione. Il rischio è che la contraddizione sia insanabile.