Il commento pubblicato il 5 novembre da La Repubblica a firma Liana Milella sulla riforma del governo Orlando in materia di intercettazioni è davvero sconcertante. Il decreto prevede che le intercettazioni irrilevanti per l’indagine e contenenti dati sensibili e circostanze di carattere privato siano conservate in un apposito archivio riservato da costituirsi in ogni procura con un vincolo di segretezza e sotto la responsabilità del procuratore capo. Ma Milella lamenta, come bavaglio alla libertà di stampa, il fatto che per il giornalista che pubblica le intercettazioni riservate sia prevista una pena sino a tre anni di reclusione. Intercettazioni, rispettare la norma sul segreto vuol dire bavaglio?

Il commento pubblicato in prima pagina il 5 novembre da La Repubblica a firma Liana Milella su un aspetto della riforma del governo Orlando in materia di intercettazioni è davvero sconcertante.

Il decreto legislativo del Governo prevede che le intercettazioni irrilevanti per l’indagine e contenenti dati sensibili e circostanze di carattere privato siano conservate in un apposito archivio riservato da costituirsi in ogni Procura con un vincolo di segretezza e sotto la responsabilità del Procuratore capo. Non possono cioè per la loro natura essere diffuse ma non vengono nemmeno distrutte perché, ed è del tutto ragionevole, è possibile che qualche conversazione nel corso del processo acquisti rile- vanza e, ad esempio su richiesta dei difensori, possa essere ascoltata e acquisita.

Devono rimanere riservate, tanto per intendersi, conversazioni come quella con la “sguattera del Guatemala” nell’indagine che aveva toccato il ministro Guidi La giornalista, molto vicina alle Procure come il quotidiano per cui scrive, lamenta con grande enfasi come bavaglio, parola magica, alla libertà di stampa, il fatto che per il giornalista che pubblica le intercettazioni riservate sia prevista una pena sino a tre anni di reclusione.

In realtà, e alla fine anche l’articolo lo spiega, non si tratta di un reato specifico introdotto in danno dei giornalisti ma semplicemente del fatto che pubblicando le intercettazioni riservate ora previste dal decreto il giornalista concorre nel reato di cui all’articolo 326 Codice penale, la rivelazione di segreti d’ufficio, con chi gliele ha fornite, magistrato, poliziotto o carabiniere che sia. Un reato per cui comunque, diversamente da quanto si legge con toni di allarme nell’articolo, non si finisce in cella.

La giornalista di Repubblica rimpiange forse il sistema precedente, quello della pubblicazione selvaggia di pagine di intercettazioni, spesso ambigue e difficili da interpretare ma ottime per colpire, il sistema in cui si rischiava di incorrere solo in una contravvenzione, la pubblicazione arbitraria di atti di cui all’articolo 684 codice penale, che si poteva estinguere con una multa appena superiore a quello da pagare per un divieto di sosta.

Il punto è che non si vuole capire un principio fondamentale.

Le intercettazioni servono come strada per indagare su specifici reati e non sono una indefinita raccolta di notizie politiche e di costume destinate alla pubblicazione, anche con le migliori intenzioni, da parte di giornalisti che le carpiscono fraudolentemente o stanno comodamente seduti in redazione nell’attesa che qualcuno le metta nella buca delle lettere del suo giornale.

Altrimenti non esisterebbe l’articolo 15 della Costituzione che prevede la libertà e la segretezza delle comunicazioni e qualsiasi amministrazione o azienda privata potrebbe, se ne ha i mezzi, tranquillamente procedere ad intercettare cittadini o dipendenti per trarne qualche vantaggio.

Ricordiamo che un’intercettazione non rilevante per un’indagine e decontestualizzata da tutto quello che le sta intorno, se pubblicata, può schiantare una persona, non solo un uomo politico ma ciascuno di noi.

Nessuno scandalo dunque per l’introduzione dell’intercettazioni riservate che nemmeno il Pubblico Ministero ha deciso di utilizzare e per le sanzioni a chi commette questo abuso che è punito in ogni parte d’Europa.

Ed anche l’Ordine dei Giornalisti dovrebbe fare la sua parte punendo, magari con una sanzione disciplinare, i suoi iscritti che sviliscono la loro professione diventando strumenti e complici di violazioni spesso dettate da finalità tutt’altro che nobili.

* MAGISTRATO