Mentre se ne conclude il quarantennale e – tra mostre, iniziative audiovisive e pubblicazioni – si cerca di fare un bilancio postumo del 1977, arriva un libro che potrebbe forse costituirne la migliore messa a punto. Si tratta di Ma chi l’ha detto che non c’è. 1977 l’anno del big bang ( Agenzia X edizioni, pp. 423, euro 20,00). A firmarlo è un autore che in un confronto serrato, anche personale e biografico, con le vicende avvenute in quell’anno ne coglie in pieno alcune delle caratteristiche più proprie. È Gianfranco Manfredi, intellettuale poliedrico e geniale ( scrittore, narratore, filosofo, cantautore, sceneggiatore di cinema e fumetti), le cui vicende biografiche e di pensiero si intrecciano al meglio con lo specifico del ’ 77.

Nato nel dicembre ’ 49 a Senigallia, di famiglia protestante, studia a Milano, prima al liceo Berchet e poi alla Statale, dove si laurea in filosofia con Mario Dal Pra. Frequenta le redazioni di Re Nudo e L’Erba Voglio, dove entra in contatto con il mondo controculturale e libertario. In particolare, dall’atmosfera anarco- situazionista del gruppo di Re Nudo e dei festival pop organizzati dalla rivista, trova la fonte di ispirazione per le sue prime canzoni, a partire dal suo primo album, La crisi, del ’ 72. Nel ’ 73 inizia contemporaneamente a lavorare per l’Istituto di Storia della Filosofia, pubblicando successivamente anche il saggio L’amore e gli amori in Jean-Jacques Rousseau. Abbandonando l’università alla vigilia della cattedra, Manfredi sceglie la creatività, la musica e la scrittura ( non solo narrativa e giornalistica ma anche cinema, scrivendo diversi film tra cui Liquirizia di Salvatore Samperi).

Restando alla produzione da cantautore, il suo secondo album, Ma non è una malattia ( 1976), preciserà le sue caratteristiche cantautoriali, mettendo alla berlina il linguaggio e i luoghi comuni allora diffusi tra i giovani. I suo testi non fotografano solo la militanza e la militarizzazione della politica ma affrontano, tra i primi, anche temi del “personale”. Tra questi c’è Ma chi ha detto che non c’è, la canzone che dà il titolo anche a questo suo lavoro scritto col senno di poi e con «uno sguardo più distaccato oggettivo, storico e d’insieme». Manfredi ricorda quando, in auto con Nanni Ricordi, scrisse il brano: «C’è, la incido. Il 45 giri previsto è un altro, e nell’album la canzone sta sulla facciata B in penultima posizione! Cioè… casomai desse fastidio, tanto siamo quasi alla fine… ». Un giorno Nanni gli telefona e gli dici che la canzone piace molto a Mick Jagger, che gli manda i suoi complimenti. Il successo sarà travolgente. A distanza di quarant’anni, dai clic su YouTube non si riesce neanche a tenerne il conto. Ricky Gianco, che la canterà insieme a lui proprio nel ’ 77 nello spettacolo Zombie di tutto il mondo unitevi, dirà: «È una fotografia, c’è quello che succedeva”. In realtà, era una canzone particolare. Ma chi ha detto che non c’è, spiega adesso Manfredi, «è una canzone d’amore, d’amore per tutto quello che c’è con tutti i suoi contrasti, non è un desiderio di qualcosa che ci sarà forse un giorno, ma che noi non vedremo mai, per vincoli biologici, e può darsi pure di specie. Qui, adesso quello che c’è prendilo tutto, con le contraddizioni…». Un inno al “riprendiamoci la vita”, qui e adesso, «senza dimenticare le sfumature, senza smarrire mai il sociale, senza limitare ideologicamente lo sguardo, senza perdere la tenerezza».

Ecco, sta proprio in questo approccio, a detta di Manfredi, il segreto del ’ 77, l’anno della consapevolezza – italiana ma forse planetaria – del grande disordine. Un disordine totale, tutto e il contrario di tutto, una sorta di consapevolezza del caos primigenio, un caos incredibilmente creativo, nel quale ogni singola particella era legata all’altra e rimandava all’altra.

Manfredi è convinto che non si può racchiudere la portata rivoluzionaria di quell’anno nei cortei e nella manifestazioni, nella cacciata di Lama dall’università e nel convegno bolognese sulla repressione. No, c’è molto di altro, «essendo stato il ’ 77 assai più di una scatola del tempo con dentro una P38 e una confezione di proiettili». C’erano infatti più generazioni all’opera, dai bimbi che nascevano ai vecchi che se ne andavano. Tutti sono stati protagonisti, a pieno titolo, di quell’anno unico e esemplare. E dentro, in questo libro ben scritto e che si legge come un romanzo, c’è davvero tutto: la nube tossica di Seveso e il funerale di Mao, l’esplosione del punk e le radio libere, il femminismo e la diffusione di Porci con le ali, la nascita dell’impero del porno e la febbre del sabato sera, l’inizio del movimento antinucleare e il black out di New York, le prime realizzazione di Steve Jobs e Bill Gates e l’arrivo di Happy Days, i nuovi fumetti di Ken Parker di Berardi- Milazzo e Pentothal di Andrea Pazienza… In tutti questi ricordi, odori, forme e colori diversi, c’è – scrive Manfredi – il senso caotico e disordinato ma unitario di quell’anno. Ne emergono oltre quattrocento belle pagine di affreschi letterari che traggono ispirazione proprio dalla canzone del titolo, scritti in una prospettiva storica senza mai limitare lo sguardo ai cliché e alla storiografia ideologizzante ma puntando l’occhio sui fenomeni dell’immaginario profondo. Percorsi inediti, insomma, alla ricerca di ciò che si presume non ci sia, ma che in realtà – citando la canzone – «sta nel fondo dei tuoi occhi, sulle punta delle labbra».

E così, tra Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes e la disco music all’italiana, tra il Sandokan con Kabir Bedi e il Kunta Kinte di Radici, Manfredi snocciola e ripercorre tantissimi fenomeni, dagli Oscar a Quinto potere e Rocky ( che proprio quell’anno sbarcano nei nostri schermi), a film epocali e paradigmatici, come gli italiani Padre padrone dei fratelli Taviani o Un borghese piccolo piccolo di Monicelli, e lo straordinario Guerre Stellari. A Milano, ancora, nel ’ 77 Mauro Rostagno apre in via Castelfidardo il Macondo, un locale da cui passano un po’ tutti, «renudisti più o meno arancioni, lacaniani in ordine sparso, cani sciolti in cerca di scodella, freschi reduci dagli scontri in cerca di asilo cordiale e soprattutto tranquillo Giorgio Gaber, sempre incuriosito da quello che di nuovo spunta, l’antiedipico Gilles Deleuze e la trozkista Vanessa Redgrave, con in sottofondo i Talking Heads, Miles Davis, la musica andina…». E ancora, «indiani dall’India e… indiani metropolitani senza ordine alcuno». Di quest’ultimo fenomeno che, a detta di molti osservatori, resta il più appariscente di tutto il ’ 77, Manfredi dopo averne ricostruito la genesi ed elencato le caratteristiche, aggiunge: «Mi ritrovai anch’io catalogato tra gli indiani metropolitani per il semplice fatto che avevo inciso nel ’ 77 Ultimo mohicano: in quella canzone, un guerriero urbano in ritardo si ritrovava, con un sanpietrino in mano, in una strada dove supponeva dovesse esserci una ma- nifestazione e invece non c’era più nessuno, così finiva in un bar a chiacchierare con i netturbini in sciopero. Cantavo il riflusso in una fase di passaggio in cui già lo si poteva annusare…». Del resto, da bambino, quando si giocava a indiani e cowboy, Gianfranco preferiva sempre fare l’indiano. E nel ’ 78, in pieno sequestro Moro, andrà in onda un programma a puntate su Radio Rai scritto proprio da Manfredi ( Chi ha paura di Mr Hyde? ) in cui Roberto Benigni faceva la parte del generale Custer finito a combattere contro gli indiani in India. Paradossalmente, la trasmissione fu bruscamente sospesa dopo che i dirigenti Rai udirono pronunciare la parola “Moro”: in realtà si stava citando ironicamente una lettera dove Engels definiva “Moro” il suo amico Marx, in riferimento a Tommaso Moro, l’utopista inglese.

Come se non bastasse, più avanti – negli anni ’ 90 – Manfredi inventerà le storie a fumetti Magico Vento, un ex soldato blu che diventa sciamano lakota: «Questo fumetto pubblicato dalla Bonelli – ricorda il nostro autore – mi consentì degli scambi proficui con i rappresentanti italiani dei nativi americani e anche con un’insegnante di una riserva cheyenne del Montana». Tornando quindi agli indiani metropolitani del ’ 77, «le etichette – sottolinea Manfredi – possono dare fastidio, ma a volte ci prendono: puoi ritrovarti davvero dalla parte degli indiani per tutta la vita».

Proprio nel ’ 77 Manfredi incide il suo terzo album, Zombie di tutto il mondo unitevi, scritto assieme a Ricky Gianco. L’ellepì vede la partecipazione della Pfm ed è anche all’origine dello spettacolo teatral- musicale omonimo realizzato con la regia di Velia Mantegazza. Quasi una celebrazione in presa diretta dell’irruzione di novità del 1977. Tina Anselmi, prima donna nominata ministro in Italia l’anno precedente, presenta la legge 903 sulla parità di trattamento tra uomo e donna in materia di lavoro. Franco Basaglia, psichiatra e neurologo rivoluzionario, annuncia la chiusura del manicomio pubblico San Giovanni di Trieste che lui dirigeva. Con la legge 517 vengono poi abolite, nelle scuole italiane, le classi differenziali.

A Roma si inaugura la Libreria delle Donne. La Rai trasmette Onda libera con Roberto Benigni e su Rai 2 appare, sempre in televisione, il lungometraggio in superotto di Nanni Moretti Io sono un autarchico.

Al teatro Alberichino di Roma debutta Carlo Verdone con un suo one man show. E, ancora in Tv, esordisce Non stop con Massimo Troisi. Al cinema è il trionfo italiano di Tomas Milian con ben cinque film del Monnezza mentre, sul piano internazionale, arriva sugli schermi Io e Annie di Woody Allen, «forse il suo capolavoro assoluto”, sentenzia Manfredi. Ma, stando alla lettura di Ma chi ha detto che non c’è, potrebbero essere due – un libro e un film – le migliore tracce di tutto il ’ 77. Boccalone di Enrico Palandri, «il romanzo che più di ogni altro ha saputo rendere il clima sentimentale ( di coppia e non solo) del ’ 77 in presa diretta». E Il diavolo probabilmente, pellicola del regista cattolico francese Robert Besson. Il totale “smarrimento” che emerge nella vicenda del film, è forse la cifra più propria di quell’anno: «Prima del riflusso – conclude Manfredi – viene il riflesso. Ci si guarda allo specchio e si riflette, su chi siamo, su chi vogliamo essere, sui nostri percorsi, passati, presenti e futuri. Chi rifiuta di consegnarsi alla morte, cerca ancora, e testardamente, un senso alla vita».