Zaia forza, Maroni frena. C’è voluto meno di un giorno perché le differenze tra i due volti della Lega, plasticamente incarnati dai governatori della Lombardia e del Veneto, emergessero in tutta evidenza. Il Veneto fa votare dalla Giunta una proposta di modifica costituzionale per fare del Veneto una Regione a statuto speciale.

Il governo s’inviperisce, il sottosegretario con delega agli Affari regionali Bressa sbotta, «Questa è una provocazione», Maroni, a sorpresa scarica il collega governatore: «Chiedere lo statuto speciale è un errore. Noi chiederemo tutte le 23 competenze previste. Vediamo se riusciamo a fare una trattativa comune anche con Zaia, dato che il governo ha già detto che non è disponibile a discutere lo statuto speciale».

In ogni caso il lombardo ha già deciso di trattare in tandem con il collega emiliano Bonaccini, che ha seguito la via più morbida chiedendo maggiore autonomia senza passare per la prova di forza referendaria. I due si sono sentiti ieri mattina al telefono e Maroni ha proposto la trattiva comune prima di sottoporre al consiglio re- gionale il documento che chiede per la Lombardia tutte le 23 competenze possibili a norma di Costituzione, chiedendone l’approvazione entro 3 settimane.

Gentiloni, dal canto suo, ha fatto il possibile per stemperare ogni possibile tensione: «Da parte del governo c’è la massima apertura, nei limiti fissati dalle leggi e dalla Costituzione». Zaia sceglie di «leggere in positivo» le parole del premier e aggiunge: «Non mancheremo di fare le nostre proposte nell’alveo della Costituzione, che parla non solo di competenze e federalismo fiscale ma anche delle modalità della trattiva». L’allusione è probabilmente alla via della riforma costituzionale chiesta dalla giunta veneta e rivela che la strada imboccata dal leghista veneto resta diversa da quella sulla quale intende procedere il leghista lombardo.

Non è solo e non è tanto l’antica differenza tra la Liga Veneta e la Lega Lombarda quella che qui emerge.

E’ piuttosto il diverso approccio di Bobo Maroni rispetto a ogni forzatura radicale, a partire da quelle dell’amico fraterno ed ex gran capo Umberto Bossi. Sin dall’inizio, da quei primi anni ‘ 90 in cui i leghisti venivano considerati dal palazzo barbari fatti e finiti, Bobo, già allora numero due del carroccio, incarnava il prototipo del leghista dal volto umano. Si diceva che venisse da sinistra, con una antica militanza in Avanguardia operaia, anche se per la verità il vice di Bossi non era andato oltre un paio di manifestazioni nei ‘ 70. Era nota la passione per il rock’n’roll e per Bruce Springsteen.

Si sapeva che che se appena appena gli obblighi politici glielo consentivano si chiudeva in garage per strimpellare di brutta con la sua band. Un leghista ' di movimento', con solida base a Varese dove la Lega era, o sembrava, molto più ' di sinistra' che altrove.

Eppure, appena vinte le elezioni del 1994, Bobo il rosso si trasforma in Bobo l’istituzionale. Il primo ministro degli Interni non democristiano nella storia della Repubblica, ma democristianissimo nella prudenza con cui maneggiò la delicata carica.

Quando, dopo appena 8 mesi di governo, Bossi decise di far cadere quel primo governo Berlusconi, proprio Maroni, il dirigente più vicino al Senatur sulla piazza capitanò il dissenso e pagò la ribellione solo con un breve esilio proprio in virtù dell’amicizia col capo, che altrimenti non avrebbe esitato ad espellerlo. Da allora Maroni è stato sempre più il volto istituzionale del carroccio, più volte ministro, poi governatore della Lombardia. L’opposto di Salvini che ha ripreso e portato alle estreme conseguenze, declinandolo però in versione nazionale, il movimentismo antisistema del primo Bossi.

Zaia è senza dubbio molto più affine al ruggente leader di quanto non sia l’ormai compassato Maroni. Ma stavolta il radicalismo del governatore e quello del capo leghista rischiano di entrare in rotta di collisione. Per Salvini la vittoria del referendum è una rosa ma con molte spine: rischia di far riemergere quei tratti ' antimeridionali' propri delle radici leghiste che confliggono frontalmente con l’ambizione di Salvini, che è estendere i consensi della sua nuova Lega su tutto il territorio nazionale. Già il referendum in sé metteva il progetto a rischio. La forzatura di Zaia, col suo risvolto di inevitabile contrasto Nord-Sud, rischia di renderlo impraticabile.