Decano degli storici italiani, autore di saggi che sono ormai pietre miliari per gli studiosi del Meridione e dell’Italia risorgimentale, Giuseppe Galasso ha visto sfilare sotto i suoi occhi attenti, 90 anni di storia nazionale, di cui più di venti consumati nella politica attiva nelle file dei repubblicani. «Il referendum – chiosa l’ex sottosegretario del Mezzogiorno - ridisegna la linea di una parabola politica che sembrava aver toccato il culmine tra gli anni 90 e il 2000: Lombardia e Veneto riaprono quell’ondata di distacchi dallo Stato di cui erano stati allora alfieri i leghisti padani»

Le materie sulle quali intendono negoziare Zaia e Maroni, in particolare quelle fiscali, non rientrano nell’alveo delle prerogative costituzionali attribuite alle Regioni. Siamo in presenza di una secessione mascherata perseguita oggi con altri mezzi?

Non vedo infingimenti o cambiamenti di prospettiva nella pulsione autonomista di cui si sono rese protagoniste Veneto e Lombardia. Intravedo piuttosto il riaffiorare in superficie di tendenze territoriali già maturate in età preunitaria. Le stesse che individuarono a distanza di tempo virtù inaspettate nei sonnolenti ducati padani, nei dormienti feudi toscani degli Asburgo- Lorena e nel reame borbonico a Napoli. Nell’Italia unitaria si è sempre rimpianto qualcuno o qualcosa. Un’operazione nostalgia che ha curiosamente risparmiato soltanto lo Stato pontificio, per ragioni che andrebbero indagate con una certa voluttà.

Da una parte Zaia e Maroni assicurano di voler agire nel pieno rispetto della Costituzione, dall’altra sembrano volerla aggirare sicuri di strappare un accordo è il caso del Veneto - sullo Statuto speciale. Insisto. Secessione mascherata?

Se solo si osservano i quesiti bocciati dalla Consulta, che sottoponevano agli elettori il tema dell’indipendenza e quello del residuo fiscale, il vero spirito che ha animato il referendum, seppure menomato, appare piuttosto evidente dalle dichiarazioni dei due governatori successive alla consultazione. D’altra parte, le nuove istanze autonomiste sono in qualche modo paradossali, se riferite all’esperienza pratica: la storia recente le ha abbondantemente bocciate nella teoria e nella pras- si. Non si vedono ragioni, se non quelle suggerite da certi miti indipendentisti, che ne possano giustificare razionalmente il ritorno nel dibattito politico.

Il pensiero corre inevitabilmente alla riforma del Titolo V: la vera cartina di tornasole di uno Stato spezzettato in microstati inefficienti?

La premessa d’obbligo è che il regionalismo, così come delineato in forma leggera dalla Costituzione del 1948, è apprezzabile e utile. Ma poi si è voluto distorcere il dettato della Carta, così che ciascuno si prendesse con la riforma la sua fetta di autonomia. Come giudicare sedici anni dopo quel mutamento? Il bilancio è del tutto negativo: regioni autonome che sognavano di alleggerire il peso della zavorra di Roma, che si sono trasformate a loro volta in piccole Roma gravate dallo stesso centralismo che deploravano. Organismi inefficienti che non hanno fatto altro che riproporre e moltiplicare le difficoltà gestionali dello Stato centrale. Dovremmo oggi ammettere, in piena coscienza, che il nuovo modello regionalista ha fallito. Che per ritornare a un regionalismo efficiente, la via da imboccare è quella che riporta alla lettera della Costituzione del 1948 e non a quella di avventurismi improbabili i cui effetti negativi sono sotto gli occhi di tutti.

Eppure, dalla Campania alla Puglia, si è innestato un riflesso condizionato che sembra ora spingere tutti verso un modello che nel migliore dei casi si presenta come più federalista. Che tipo di Italia attenderci di questo passo?

Non ci sarà alcuna corsa al federalismo per il semplice fatto che il federalismo c’è già e non brilla certo per risultati entusiasmanti. C’è da supporre semmai, che a furia di reclamare maggiore autonomia non resterà nient’altro da chiedere. Di concessione in concessione, si giungerà al punto di non ritorno. Quando nient’altro sarà esigibile, più niente contendibile, i richiedenti resteranno con un pugno di mosche in mano. Presto o tardi l’opinione pubblica comprenderà che il tentativo di costituire vicereami e zone riservate di caccia e di influenza, è, oltre che improvvido, del tutto pernicioso.

Le vicende catalane segnalano peraltro che le ambizioni localistiche sono un vero azzardo, dato che l’Europa ha bocciato a chiare lettere il principio di autodeterminazione rivendicato da Puidgemont e soci a Barcellona. Anche l’Italia rischia di finire ulteriormente indebolita dalle crescenti spinte centrifughe, spesso alimentate anche da un certo scontento per un’Unione deludente?

L’opinione pubblica italiana è meno ostile all’Europa di quanto non lo sia oggi quella di altri Paesi. Nonostante le tante delusioni raccolte finora, il popolo italiano resta nel complesso europeista nonostante le frammentazioni locali. Resta però ben inteso che gli italiani si attendono una svolta, che può venire soltanto a partire dalle nostre istituzioni. Un’Europa finalmente forte nella sua dimensione etico- politica, costituita da Stati forti e saldi capaci di dar vita a un tutto armonico, sarebbe il migliore scudo contro la polverizzazione.