«Si muoveva per balzi improvvisi, fintava da una parte e poi sgusciava dall’altra. In mezzo il pallone. Attaccato ai piedi eppure invisibile, nascosto sotto la suola dello scarpino. Avete mai visto volare una farfalla? Non tira mai dritto, segue traiettorie imprevedibili. Gigi era così, un fenomeno. Un uomo buono, un uomo libero, un rivoluzionario inconsapevole fuori e dentro il campo».

Chi parla è Aldo Agroppi. Sono pas- sati cinquant’anni da quel 15 ottobre del 1967 che lo vide debuttare in serie A contro la Sampdoria nelle file del Torino. Ma Aldo Agroppi, bandiera granata, ricorderà per sempre quel giorno, nero e beffardo, come lo stesso giorno che portò via per sempre Gigi Meroni, il mitico Gigi Meroni.

Agroppi è stato un giocatore chiave della rinascita granata dopo la tragedia di Superga e poi dopo la morte di Meroni, quando ha smesso di giocare ha fatto l’allenatore, l’opinionista e lo scrittore. Oggi rievoca quella che lui chiama «la vittoria maledetta» nel nuovo libro, “Non so parlare sottovoce” in uscita per Cairo, che è il diario di mezzo secolo di calcio.

Agroppi, che cosa ricorda di quel 15 ottobre del 1967?

«Ricordo che Edmondo Fabbri, l’allenatore, già dalle prime ore del mattino mi disse: “Ragazzo, oggi giochi dal primo minuto”. Aspettavo quell’esordio da una vita, e poi avevo bisogno di soldi. C’era da marcare Bobo Vieri, il padre di Christian. Ricordo che Gigi si avvicinò e mi mise una mano sulla spalla. “Vedrai che andrà bene, stai tranquillo”. E infatti andò benissimo, anche troppo. Vincemmo 4 a 2, tripletta di Nestor Combin, una vittoria maledetta. Se avessimo giocato meno bene, Gigi sarebbe ancora vivo».

In che senso?

«Qualcuno del gruppo aveva preso il vizio di non passare le notti in ritiro ma altrove. E così il mister Fabbri aveva stabilito che, dopo ogni partita, la squadra dovesse restare in albergo fino al lunedì. Dopo l’incontro con la Samp c’era però grande euforia. “Dai mister, ha esordito anche Aldo, facci andare a casa stasera”, incalzavano i miei compagni a cena. Si è scritto che Gigi quella notte lasciò il ritiro con Poletti anzitempo. Ma non è vero. Fu Fabbri a lasciarci la serata libera. Un atto di debolezza che il mister non si perdonò per il resto della sua vita».

Perché poi Meroni scese per strada e fu investito in Corso re Umberto.

«A ripensare a quella notte, i se e i ma fanno salire la rabbia. Gigi va a casa, non ha le chiavi, citofona a Cristina, la compagna, ma non la trova perché erano d’accordo che si sarebbero visti il lunedì ed era andata a trovare un’amica. Aveva lasciato le chiavi alla portiera del palazzo. Ma quella notte, la portiera, per ben due volte non vede passare Gigi dalla portineria e non riesce perciò a consegnargli le chiavi di casa. È per questo motivo che poi Gigi va al bar per telefonare a Cristina. Si sentono, riattaccano. Cristina gli dice che le chiavi sono in portineria. Gigi va verso casa, attraversa la strada e muore investito dalla Fiat Coupè del futuro presidente del Torino che idolatrava Meroni. Lo chiamano il disegno di Dio, o forse è il disegno del destino che è la stessa cosa. Ma la verità è che la morte è stupida. Non c’è niente di più stupido che morire».

E lei quando seppe della morte di Meroni?

«Quella notte la passai in famiglia, tutto contento per il mio esordio. L’indomani venne da me Ruben Merighi nero in volto e mi disse: “Gigi è morto stanotte”. Non ci credetti, pensai a uno scherzo. Poi corsi in ospedale e vidi Gigi. Era ancora sul letto, bianco in volto. Era morto davvero».

La Diocesi di Torino si oppose poi al funerale religioso perché Gigi conviveva come ' peccatore pubblico' con Cristina. Che Italia era quella del ’ 67?

«Era l’Italia che conosciamo, l’Italia senza divorzio. Ma era anche l’Italia degli italiani, che amò Gigi alla follia perché era un grande uomo. Il cappellano del Torino, Francesco Ferraudo, celebrò il funerale comunque davanti a 20mila persone. Migliaia di fan granata, migliaia di operai della Fiat erano venuti a salutare uno di loro. Alla faccia dei precetti morali».

E la settimana dopo il funerale, anche voi calciatori onoraste la morte di Gigi con una clamorosa vittoria nel derby.

«C’era un’atmosfera irreale quel giorno. Quando entrammo in campo, i tifosi ci fecero un timido applauso di incoraggiamento, poi zitti per tutta la partita. Ricordo che l’elicottero inondò la fascia destra di fiori, era la fascia di Gigi. Juventini e granata ammutoliti, non si era mai visto prima. Al momento di scendere in campo ci guardiamo in faccia: “Questa la vinciamo per Gigi”, ci diciamo. Combin, il nostro centravanti, grande amico di Meroni, aveva la febbre ma aveva voluto giocare a tutti i costi. Segna su punizione al terzo minuto, raddoppia al settimo, fa tripletta al quindicesimo della ripresa. Una furia. Vinciamo il derby con la Juve per quattro a zero, la più larga vittoria nel derby dalla tragedia di Superga. La verità è che quel giorno avremmo schiantato anche il Real Madrid. Era una piccola cosa in confronto alla morte, ma Gigi non aveva mai vinto un derby. E quella vittoria era per lui».

Che uomo era Meroni?

«Era un ragazzo di ventitré anni dal talento infinito. Ed era un incompreso. È vero, se ne stava in soffitta a disegnare vestiti e cravatte, guidava la Balilla, girava con la gallina al guinzaglio e portava la zazzera e la barba incolta. Ma non era un esibizionista, perché lui non copiava nessuno. Era semplicemente se stesso, furono gli altri semmai a copiare da lui. Chi era di un’altra generazione non poteva capire. Gigi era un uomo libero, e il presidente lo aveva capito. Pianelli gli aveva concesso di portare i capelli lunghi, unico della squadra, perché Gigi era Gigi. Era lo spirito del tempo, un giovane di famiglia operaia che più di ogni altra cosa amava la libertà, e se ne fregava dei giudizi di chi non poteva capire».

I paragoni con i Balotelli di oggi, genio e sregolatezza, sono dunque fuori luogo?

«È tutta un’altra storia. Oggi basta un po’ di successo, e il calciatore di turno si riempie di tatuaggi, auto e donne. Tutti lo stesso taglio di capelli, tutti gli stessi vestiti. Niente di più conformista. Gigi è rimasto uguale a se stesso, portava la zazzera sin da ragazzino. E ha continuato a portarla anche dopo, quando è diventato un fuoriclasse assoluto. Oggi qualunque brocco strapagato, che azzecca una partita, si sente subito autorizzato a fare il fenomeno».

C’è qualcuno nel calcio di oggi che ne ricorda le movenze?

«Nessuno in assoluto. Dribbling, tecnica e velocità erano sopraffine. Per il modo di caracollare, aveva qualcosa di Meroni Emiliano Mondonico, grande talento che non prese purtroppo la carriera da calciatore troppo sul serio. E qualcosa di Gigi aveva anche Claudio Sala. E, anche se in un altro ruolo, un altro grande come George Best».

Oggi Meroni avrebbe 74 anni, ha mai immaginato quale sarebbe stato il prosieguo della sua carriera e che uomo sarebbe nella società contemporanea?

«Lo avremmo celebrato come la più grande ala italiana di tutti i tempi, protagonista nel Torino, che quell’anno in cui morì avrebbe vinto lo scudetto, e in nazionale. Ma una volta appesi gli scarpini al chiodo, con il calcio avrebbe chiuso. Non avrebbe mai fatto l’allenatore o l’opinionista in televisione, non era per lui. Oggi avrebbe un atelier di moda, avrebbe continuato a disegnare cravatte e vestiti. Gigi non inseguiva il successo, semmai lo precedeva. Gli sarebbe bastato continuare a essere quello che è sempre stato: Gigi Meroni, uomo libero, in arte la farfalla granata».