Se fosse una competizione sportiva sarebbe un incontro di boxe all’ultimo sangue con colpi proibiti, tirate di capelli, ginocchiate e dita negli occhi. Invece è il muro contro muro tra il governo di Mariano Rajoy e la Generalitat di Catalogna, che non pare avere nessuna possibilità di ammorbidirsi. Solo, sembra, potrà inacidirsi col passare dei giorni fino al fatidico 1 di ottobre, data del referendum per l’indipendenza indotto dai principali partiti catalani.

Un flash degli ultimi avvenimenti: dopo l’arresto, la scorsa settimana, da parte della Guardía Civíl, la polizia nazionale spagnola, di 14 politici catalani, tra cui alti membri dell’Esecutivo, accusati di disobbedienza per l’organizzazione del referendum. Dopo la rivolta popolare per le strade fino al loro rilascio, un giorno più tardi, che ha visto la polizia nazionale circondata e minacciata da una folla inferocita. Dopo il sequestro, sempre da parte della Guardía Civíl, di quasi 10milioni di schede elettorali per impedire il voto.

Ecco che arriva l’ultimo atto: i Mossos d’Esquadra, la polizia speciale catalana è stata commissariata dalla procura di Barcellona e passa sotto il controllo del Ministero degli Interni spagnolo, tra furenti polemiche e grida al colpo di stato e al franchismo. Joaquim Forn, a capo delle forze di sicurezza catalane, ha affermato in un tweet che «I Mossos d’Esquadra non accetteranno di essere coordinati dal governo di Madrid». «Che cosa succederà?» è la domanda che tutti si stanno facendo per le strade di Barcellona. Nei bar le bandiere catalane si sono moltiplicate. Volantini di ogni tipo e colore che inneggiano all’indipendenza sono appiccicati sui muri, sui pali della luce, sulle vetrine di negozi e ristoranti, sui portoni delle case, sui balconi.

La festa della Vergine de la Mercè, la più importante ricorrenza popolare di Barcel- lona, con concerti, eventi di piazza e incontri all’aria aperta, si è trasformata in un inno alla democrazia e all’indipendenza. I castelli umani tipici del folclore catalano si tingono con i colori indipendentisti, rosso, giallo, blu, e i pupazzi giganti che sfilano per le strade gremite hanno addosso bandiere e sciarpe catalane. « Sense desobediència no hi ha independència » grida invasata la piazza della Cattedrale nelle pause tra una canzone e l’altra. Davanti all’università UB un discreto gruppo di studenti ha eretto un campo permantente per sensibilizzare la gente a votare per staccarsi dalla Spagna.

«Che può succedere? Non lo so, quello che so è che qualsiasi cosa accadrà noi andremo a votare», questa è la risposta decisa, a volte rabbiosa, della maggioranza dei catalani che abbiamo incontrato. Ma avrà, una popolazione come quella catalana, in grande maggioranza borghese e benestante, la determinazione di arrivare allo strappo? Il coraggio di mettere tutte le fiches sul tavolo? Fino ad un anno fa, l’indipendenza sembrava un proposito lontano e confuso. Ma la strategia della repressione da parte del governo del Partido Popular ha prodotto l’unica cosa possibile: la catalizzazione dei moderati, degli indifferenti, di quelli che la politica non la vogliono vedere, di quelli che la politica non sanno nemmeno cos’è, e che adesso sono convinti, chimera demagogica, che l’indipendenza sia la soluzione ad ogni loro problema.

«Bisogna ricordare che quando si è votato per l’ultimo referendum, il 9 novembre 2014, non è successo niente», spiega in un’intervista al diario. es lo storico catalano Josep Fontana, «Che è ciò che sarebbe successo anche stavolta se tutto questo fosse stato portato avanti in una forma civile. Se fosse stato considerato come un punto di partenza per aprire un confronto. Ma nel fondo, al PP, interessa lo scontro».

A Zaragoza, capoluogo della regione di Aragón adiacente a Catalogna, domenica era prevista un’assemblea di Podemos per cercare una soluzione dialogata e “pacifica” al tema dell’indipendenza catalana. Lo spazio adibito all’incontro però viene circondato da circa trecento ultras spagnoli. Volano insulti, una bottiglia colpisce la presidenta della Corte de Aragón, Violeta Barba, golpistas! secesionistas! gridano indemoniati i nazionalisti spagnoli.

In una situazione simile, la polizia proteggerebbe i membri democraticamente eletti del partito di Pablo Iglesias e assicurerebbe il naturale svolgersi dell’assemblea. Ma i poliziotti a Zaragoza, intorno al padiglione Siglo XXI dove si svolge la riunione, si contano sulle dita di una mano. Non riescono a calmare la folla di ultranazionalisti, sono costretti a chiudere le uscite del padiglione e a impedire a chi già è entrato di uscire e a chi deve entrare di farlo, in un’atmosfera tesa da guerra civile. La polizia non può assicurare l’incolumità dei partecipanti, e la ragione addotta è che «siamo a corto di personale. La maggior parte della polizia nazionale è stata inviata a Barcellona».

Il presidente della Generalitat, Carles Puigdemont non perde occasione per sottolineare, attraverso twitter, l’enorme differenza di civiltà che c’è tra i manifestanti catalani, pacifici e coscienziosi, e quelli spagnoli. Come se stessimo parlando di due popoli culturalmente e geneticamente lontani anni luce. Come se parlassimo di cinesi e portoricani. E la spaccatura si allarga, e le divergenze risaltano.

Mentre si passeggia per la città, il flusso costante di turisti, biondi, neri, rossi, gialli, di ogni paese, di ogni religione, di tutte le lingue, da l’illusione ovattata che tutto sia come sempre, che Barcellona sia una calamita, una miniera d’oro di un capitalismo razionale e ben organizzato. Chi è passato per il porto, in questi giorni avrà notato un’imponente nave da crociera italiana, la Moby Dada, decorata con gigantesche immagini di Titty, Willie il Coyote e Duffy Duck, seduzione irresistibile per i bambini in crociera.

Qui, sulla nave dei Looney Toones e su un’altra, sono adesso stipati, ironia della sorte, migliaia di poliziotti spagnoli che il Ministero degli Interni non è riuscito ad alloggiare a terra, vuoi per ostruzionismo delle aziende catalane, vuoi perchè tutte le stanze di hotel erano effettivamente già state prenotate.

Chi invece il fine settimana ha fatto una scampagnata poco fuori Barcellona, avrà forse ascoltato l’omelia di Sergi d’Assís Gelpí, sacerdote del monastero di Santa Maria del Montserrat, luogo di culto catalano situato sul picco dell’omonima montagna rocciosa, in cui denunciava la «repressione che il popolo catalano sta vivendo in questi giorni».

Solo possiamo aspettare il gong dell’ultimo round che è a meno di una settimana. E la furia dei pugili non accenna a spegnersi, ma piuttosto a infiammarsi ogni giorno di più.