È una storia sconcertante. Una di quelle storie che lasciano l’amaro in bocca; è la storia è quella di un giudice, il Procuratore Generale di Catanzaro Pietro D’Amico. Comincia quasi dieci anni fa, nel 2008. L’alto magistrato si trova coinvolto in un’inchiesta che a suo tempo fece scalpore: quella “Why not? ”, condotta dall’allora procuratore Luigi De Magistris. Accuse che col tempo si rivelano completamente infondate. La riabilitazione è netta, chiara; solo sospetti, tutto viene archiviato; ma D’Amico esce da questa vicenda profondamente scosso: il solo fatto che si sia potuto dubitare del suo corretto agire, lo getta in uno stato di profondo sconforto. L’uomo, all’apparenza, è quello di sempre: sorridente, solare. Ma evidentemente qualcosa “dentro” si è rotto. Congiunti, amici, sanno di questo “disagio”, ma non ne sospettano la profondità, la gravità di questa ferita che non riesce a rimarginarsi. Il 27 aprile 2010 D’Amico scrive a un amico, Edoardo Anselmi: «C’è poco da capire: in una situazione come la mia, io voglio morire perché aggredito da una malattia terribile in fase avanzata e terminale». Già: perché al magistrato, nel frattempo, è stato diagnosticato un tumore. D’Amico matura la convinzione che è meglio farla finita con “la dolce morte” da praticare là dove è consentito: in Svizzera; meglio scegliere come e quando, piuttosto di una lunga, lenta, dolorosa agonia senza scopo e speranza. «Sto pensando», scrive, «a qualcosa di indicibile, e che nessuno può immaginare. Vado in Svizzera poiché là é chi provvederà nel caso come il mio». Trascorrono così quasi due anni: D’Amico sembra determinatissimo nel suo proposito. Alla fine ottiene la documentazione necessaria: certificati che affermano l’esistenza di patologie che rendono possibile, in base alla legge elvetica il cosiddetto “suicidio assistito”. Nell’aprile del 2013, a Basilea, presso il centro “Life Circle- Eternal Spirit”, la vicenda si conclude: D’Amico trova la sua pace.

L’inquietante storia, invece, comincia ora. Perché la famiglia, che nulla sa dei propositi di D’Amico, viene freddamente avvertita con una telefonata dell’avvenuto decesso; cerca di capire cosa è accaduto: chiede, e ottiene, che sia effettuata l’autopsia. Colpo di scena: D’Amico non era affatto malato di tumore, come forse credeva. Depresso, sì, per le ragioni che abbiamo detto. Ma l’autopsia, e approfonditi esami di laboratorio escludono l’esistenza di quella grave e patologia dichiarata da alcuni medici italiani, e asseverata da medici svizzeri. Clamoroso errore, diagnosi errate, che spingono D’Amico, già psicologicamente provato, a convincersi che l’unico modo per chiudere con dignità la propria esistenza, è quello di ricorrere al suicidio assistito? O, peggio: i documenti sono stati falsificati ad arte, per poter appunto accedere alla clinica svizzera e suicidarsi? E’ quello che invano la famiglia di D’Amico chiede da anni di sapere. La magistratura italiana, ripetutamente investita del caso, al momento non ha intrapreso particolari iniziative per accertare i fatti; e comunque la famiglia nulla sa. Come mai? Perché?

Di questa sconcertante abbiamo trattato ne “La Nuda Verità”, la trasmissione che conduco assieme a Massimiliano Coccia, ogni domenica alle 19.30 su “Radio Radicale”. A “La Nuda Verità” abbiamo ospitato Francesca, la figlia del magistrato. Ha ripercorso con noi tutte le tappe della vicenda. Ha denunciato come al padre siano state diagnosticate patologie inesistenti, redatti certificati medici falsi; e rivendica il diritto di sapere come sono andate davvero le cose: «Mi chiamarono dalla Svizzera e mi dissero che mio padre era morto. Io cadevo dalle nuvole: ero convinta che fosse un errore, una omonimia… Invece era tutto tragicamente vero». Francesca non contesta l’aspirazione alla dolce morte, dice di rispettare la scelta di suo padre. Però ne fa un problema di deontologia: «Possibile che sia arrivato in Svizzera con due documenti sulle sue condizioni di salute e che nessuno abbia fatto accertamenti per capire, confermare, accertare? Quale medico si può arrogare il diritto di disporre della vita altrui? Voglio andare fino in fondo a questa faccenda, per capire come sono andate esattamente le cose e se sono stati commessi errori».

Sullo sfondo di questa inquietante vicenda, i dilemmi e gli ineludibili interrogativi di sempre che lacerano le coscienze, quelle laiche come quelle dei credenti: come e quando si ha diritto di interrompere la propria vita? La depressione, pur nel suo stato profondo, va compresa tra le patologie che possono rendere possibile la “dolce morte”? Chi può stabilire quando il cosiddetto “mal di vivere” è incurabile? Fino a che punto il volere del soggetto va assecondato, e non si deve invece cercare di offrirgli alternative? Insomma: quali i limiti, e quali i diritti; come esercitarli, e fino a che punto esercitare la propria autodeterminazione? Ecco, al di là del caso specifico che abbiamo affrontato, l’essenza delle questioni. Che non vanno negate, e che bisogna, al contrario, cercare di “governare”.

* Presidente Istituto Luca Coscioni