Tutti prosciolti. «La notizia di reato è infondata», è l’esordio della richiesta di archiviazione del pubblico ministero, tre anni dopo i fatti che fecero il giro dell’Italia propinando e diffondendo le certezze assolute di certo giornalismo antimafia. E’ difficile trovare notizie più ghiotte delle processioni religiose che si inchinano davanti alle case dei boss. Mafia, morti ammazzati e sangue quando si mescolano ai riti cattolici e alle scorie paganeggianti popolari diventano una calamita irresistibile per i giornalisti e per parte dei lettori: fa vendere e offre visibilità. Nel paesino di San Procopio arrivarono gendarmi e giornalisti

Ma, dicono ora i magistrati, a San Procopio, il paesino aspromontano di un migliaio di abitanti in provincia di Reggio Calabria, davanti alla casa del boss Nicola Alvaro non vi fu alcun inchino, né alcun “segno di ossequio e rispetto”. Anzi, a frugare con attenzione nell’ordinanza si scopre che nella casa del boss davanti a cui il Santo in processione si sarebbe inchinato, il Patriarca non ci aveva mai messo piede in vita sua ( prima che lo arrestassero abitava in campagna) e, a volerla dire tutta, nessuno sapeva ( tranne i carabinieri che lì avevano piazzato un telecamera nascosta) che quella fosse l’abitazione destinata a riceverlo una volta uscito dal carcere.

Siamo nel luglio del 2014 e pochi giorni prima della processione a San Procopio ce n’era stata un’altra ad Oppido Mamertina ( sempre in Calabria, sempre dalle parti dell’Aspromonte) finita su tutti i giornali italiani per uno smaccato inchino la cui esecuzione avrebbe addirittura imposto la modifica del percorso antichissimo del Santo. Eduardo Lamberti Castronovo, il sindaco di San Procopio, affermato imprenditore della sanità in Calabria, all’epoca assessore alla legalità e alla trasparenza della Provincia di Reggio, aveva concordato e chiesto in anticipo ai carabinieri del paese a al parroco di vigilare sulla correttezza e lo svolgimento della processione: lui, in continuo rapporto coi carabinieri e la Procura, le scuole e le autorità per il suo lavoro di assessore alla legalità, non voleva certo finire sui giornali come quelli di Oppido. «Alla minima anomalia – aveva chiesto – avvertitemi: mi tolgo la fascia e abbandono la processione» . Ma a San Procopio era filato tutto liscio. Il Santo aveva girato per il paese sempre per le stesse strade fermandosi un attimo a raccogliere le offerte quando i fedeli avessero fatto segno di volerlo onorare con un’offerta, come sempre. Quel giorno ( nessun giornalista era presente all’evento, avrebbero poi ricostruito le indagini) vi furono alcune decine di fermate di pochi secondi lungo il tragitto per le offerte, tra cui anche quella di Grazia Violi, la moglie del detenuto- boss per mafia, svoltasi in venti secondi con modalità identiche a tutte le altre. Lamberti aveva poi sostenuto di aver chiesto continuamente, anche durante lo svolgimento della processione, se tutto stava procedendo ok, raccogliendo assicurazioni dei carabinieri e del sacerdote officiante. Insomma, niente di niente.

Per questo era andato su tutte le furie quattro giorni dopo quando Il Quotidiano della Calabria aveva fatto uno scoop in esclusiva e aveva aperto una durissima polemica contro il giornalista che aveva firmato ( l’inesistente, dice anche la procura) scandalo ‘ ndranghetista di una processione che, sotto gli occhi di tutti, aveva ossequiato il boss. Lamberti in un Consiglio comunale aperto agli interventi del pubblico aveva ribadito la falsità della notizia chiedendo pubbliche scuse per gli abitanti di San Procopio. Il giornalista, per tutta risposta, lo aveva denunciato per calunnia aggravata dal metodo mafioso coinvolgendo anche quanti avevano sostenuto le tesi di Lamberti ( vice sindaco, maresciallo dei Carabinieri e il prete del paese; anche loro prosciolti). Solo il Garantista, un giornale calabrese all’epoca diretto da Piero Sansonetti, aveva sostenuto in un editoriale che Lamberti si era limitato a difendere la comunità che lo aveva eletto sindaco e, quindi, aveva fatto bene.

«Ho dovuto aspettare tre anni per avere giustizia. Ed è arrivata solo quando la procura generale ha avvertito che o si concludeva o avrebbe avocato le indagini», s’indigna Lamberti. «Certo, nessuno ha creduto a quella ridicola accusa o a miei rapporti con ambienti mafiosi. Ma io sono rimasto sul fuoco per tre anni con gravi danni anche alla mia attività. Quali? Per esempio, ma è solo un esempio, avevo vinto un appalto per fare le analisi ai dipendenti della Procura, con un bel ribasso, ma dato che ero indagato l’appalto se l’è preso chi era arrivato secondo, e a un prezzo che sarà più gravoso. Per tre anni mi hanno emarginato. Avevo costruito ottimi rapporti coi carabinieri e la procura per il mio lavoro di assessore. Ma si sono preoccupati di indagarmi raggiungendomi fuori Reggio mentre ero con il maestro Muti per organizzare un concerto in Calabria a favore della legalità. E’ vero, la giustizia arriva prima o poi. La verità alla fine viene a galla. Ma intanto tre anni di emarginazione e sospetti mi hanno bloccato facendomi gravi danni. Ed io ero nelle condizioni di difendermi, grazie al mio passato trasparente e ai miei mezzi. Mi conoscono tutti da decenni. Mi chiedo: cosa sarebbe successo se fossi stato un cittadino senza possibilità, come purtroppo ce ne sono tantissimi?».