Davvero una vita spericolata e degna di un romanzo avventuroso, quella di Camillo Castiglioni. Un nome misteriosamente scomparso dalla memoria collettiva italiana. Eppure è il nome di una figura degna più di altre di figurare in gallerie biografiche di esistenze straordinarie come l’ormai classica Uomini del Novecento di Geminello Alvi. Scomparso a Roma nel dicembre del ’ 57 a settantotto anni, Castiglioni era stato uno dei protagonisti dietro le quinte dell’economia, dell’industria e anche della politica europea della prima parte del secolo scorso. Un italiano cosmopolita come ce n’erano tra la fine dell’ 800 e l’esordio del ’ 900. Con lui, si leggeva su La Stampa, all’indomani della morte, scompariva «una delle più potenti figure del mondo finanziario europeo dei primi quarant’anni del secolo», l’uomo «che aveva dato vita a mille intraprese, che aveva creato e visto dissolvere fortune, che nel periodo austro- ungarico aveva in Austria una potenza quasi sovrana, che aveva donato, nel periodo del suo maggiore splendore, il Mozarteum alla città di Salisburgo, dove esiste tuttora una Sala Castiglioni». Certo, nel corso della sua esistenza terrena troppi stereotipi si erano addensati sul suo nome e sul suo profilo. Originati, probabilmente, dalla sua poliedricità: ebreo e figlio del rabbino capo di Roma, italiano di Trieste, self made man, industriale, finanziere, speculatore, esteta, mecenate, convertitosi al cristianesimo evangelico, irredentista e poi fascista, italiano a Vienna passato per Costantinopoli, mediatore di relazioni diplomatiche, amico degli Stati Uniti, residente in Svizzera, italo- americano… Da Vienna riuscì a edificare dal nulla un impero industriale e finanziario tra i più influenti e rilevanti del suo tempo. Amico di Ferdinand Porsche e di Ernest Heinkel, portò al successo la Austro- Daimler e la Bmw, mentre costruiva aerei e dirigibili. Proprietario di banche, acciaierie, giornali, aziende elettriche, con la Comit di Giuseppe Toeplitz e la Fiat di Giovanni Agnelli partecipa all’espansione economica italiana nell’Europa centrale e nei Balcani dopo la Grande Guerra. Ovviamente, nell’immaginario che oggi definiremmo populista, divenne anche uno degli uomini più odiati d’Europa, preso a facile paradigma della speculazione finanziaria internazionale. Karl Kraus, ad esempio, intitolò Metafisica dello squalo un suo profilo sprezzante, in cui lo si definiva «il tipo imperialista della ricchezza». Mentre il razzista italiano Giovanni Preziosi, nel maggio del ’ 43, lo definiva il «Cagliostro Ca- stiglioni», sempre «al centro dell’eterno connubio tra giudaismo, massoneria e plutocrazia». E Ludovico Toeplitz – figlio del fondatore della Comit – lo descriveva come «una piovra, pronta a protendere all’improvviso i suoi tentacoli per ghermire la preda». Quasi una prefigurazione dei cliché che, ancora oggi, certi ambienti affibbiano facilmente ai vari Soros di turno.

Anche per questo è più che meritoria la biografia che – a sessant’anni dalla morte – gli ha dedicato Gianni Scipione Rossi, giornalista che da sempre si è segnalato anche un rigoroso studioso di storia contemporanea. Intitolata Lo “squalo” e le leggi razziali. Vita spericolata di Camillo Castiglioni ( Rubbettino, pp. 286, euro 14,00), il libro squarcia il velo della damnatio memoriae e della pigrizia storiografica con una ricerca documentatissima e inserita in una rara capacità di connessione interpretativa nel contesto della storia del Novecento. «Dal punto di vista italiano – annota Rossi – il finanziere triestino non aveva bisogno di riletture né di riabilitazioni postume. Semplicemente, a sessant’anni dalla morte, aveva forse il diritto di essere conosciuto. Per quel che è stato». Va aggiunto e non è cosa secondaria, che il libro è scritto benissimo, le oLtre 200 fitte pagine scorrono che sembra un romanzo d’avventura. «Di Camillo Castiglioni – scrive ancora Rossi – col trascorrere dei decenni, si è persa la memoria. Una vita travagliata, tra successi e catastrofi, non solo economici». La sua sigla, “CC”, era stato un marchio, un brand diremmo oggi, noto in tutta Europa, tanto che non mancò chi disse che avesse addirittura sostituito il KK ( Koeniglich und Kaiserlich), l’attributo ufficiale dell’Imperial Regio Governo austro- ungarico, nei paesi successori: Austria, Ungheria e Cecoslovacchia. «Un marchio, quello – si legge ancora nella biografia – conquistato dal giovane figlio del rabbino rientrato da Costantinopoli, che, secondo il racconto del giornalista Italo Zingarelli, dopo la Grande Guerra corrispondeva al più conosciuto tra quanti vivevano sulle rive del Danubio».

Tralasciando qui tutte le affascinanti avventure del giovane Castiglioni sino agli anni Trenta – che comunque meriterebbero già da sole la lettura della biografia – l’ulteriore merito di Rossi è quello di soffermarsi adeguatamente sul trauma delle leggi razziali del ’ 38, le quali – come commentò il sansepolcrista ebreo Eucardio Momigliano – costituirono una «aperta e solenne sconfessione di quanto durante 19 anni aveva sempre fatto e proclamato Mussolini». Nel libro si ricorda, ad esempio, come la Comit – l’istituto fondato da Giuseppe Toeplitz, il grande banchiere di origine ebraica – concesse a Mussolini nel ’ 19 la sala milanese di piazza San Sepolcro per la fondazione del movimento. E che dei 33.124 ebrei italiani maggiorenni censiti nel 1938 ben 10.370 fossero iscritti al Pnf ( un terzo del totale) e ben 230 fossero titolari del brevetto della Marcia su Roma. Castiglioni è letteralmente scioccato: è fascista da sempre, dal ’ 34 si è iscritto al partito, ha finanziato L’Idea Nazionale e Il Popolo d’Italia, ha fatto rientrare i suoi figli dall’estero. Non capisce. Nonostante si appelli al Duce e stili un Memoriale, non riesce a ottenere la “discriminazione” dalle leggi antiebraiche né riesce a riparare negli Stati Uniti. E tra difficoltà, cadute e rinascite, lo “squalo” – sospettato anche di aver riciclato in Svizzera fondi neri di Mussolini e Ciano – riesce sempre a cimentarsi in nuove imprese. Sino, ed è la sua ultima avventura, a ingaggiare nel dopoguerra un epico duello legale con il Maresciallo Tito. Castiglioni infatti, nel 1949, svolge un ruolo diplomatico di primo piano tra gli Stati Uniti, l’Italia e la Jugoslavia “scomunicata” da Stalin e dal Cominform. Una trattativa che l’ex finanziere, ormai settantenne, svolge da non più miliardario, tanto che otterrà il gratuito patrocinio in una complessa vicenda giudiziaria che durerà alcuni anni.

In quegli anni la Jugoslavia si stava gradualmente legando al blocco occidentale, pur continuando a essere un paese socialista con un regime autoritario, riuscendo a ottenere ingenti finanziamenti americani. In cambio, il regime di Tito pose fine a ogni intervento nella guerra civile greca, abbandonando i comunisti ellenici al loro destino, e divenendo un elemento di stabilità nella politica balcanica degli occidentali. È dunque comprensibile che Castiglioni, finanziere ben noto in tutti i Balcani, fosse stato individuato come possibile mediatore. Fatto sta che arriva a incontrare Tito, a parlare col premier italiano De Gasperi e il ministro degli Esteri Sforza, ad andare negli Usa e a tessere la sua tela. Alla Jugoslavia sarebbe stato concesso un prestito di 40 milioni di dollari in due tranche. Dopo tutta una serie di trattative, Castiglioni si considerò truffato: mancavano all’appello i dollari convenuti per il suo lavoro. A parte le spese, Castiglioni doveva ricevere 600mila dollari… E allora si affida a un avvocato romano quarantenne, discendente da una famiglia prussiana, Adolfo Katte Klitsche de la Grange. Quest’ultimo, con il supporto dei colleghi Gianguido Fossà e Giuseppe Della Monica, s’imbarca in un’avventura giudiziaria che gli procurerà fama e rispetto nonché il saldo di una parcella di 75 milioni di lire nel 1955. Il 4 aprile 1951 viene citato in giudizio il governo jugoslavo presso il Tribunale civile di Roma. Il processo andrà sulle pagine di tutti i giornali per qualche anno. «Tito non paga un debito di 380 milioni” titola il Corriere della Sera che segue tutte le udienze. E anche dopo la prima sentenza – «la Villa del Consolato di Jugoslavia sequestrata per l’insolvenza di Tito» – la vicenda va avanti con ulteriori round. Un conto è infatti vincere una causa, altro è ottenerne l’esecuzione. E qui entrarono in gioco l’abilità professionale e le relazioni di Klitsche de la Grange. Il quale si rivolse al grande civilista Francesco Carnelutti e al giurista Piero Calamandrei. Forte dell’autorevole consulenza in merito all’inapplicabilità di un decreto in merito alla reciprocità tra Italia e Jugoslavia, l’avvocato romano deve fronteggiare l’avvocatura dello Stato, il ministero degli Esteri, la Banca d’Italia, l’Ufficio italiano cambi. Tra l’ottobre del ’ 53 e l’inizio del ’ 54 gli esposti, le memorie e le comparse conclusionali degli avvocati di Castiglioni rimbalzano tra Roma e Milano. La battaglia giudiziaria si chiuderà formalmente con la sentenza emessa dal Tribunale civile di Roma il 26 maggio ’ 54. Nonostante ciò, ancora scambi di lettere, minacce, accuse e incontri. Fino al 1955, quando Castiglioni incasserà circa 6 milioni di euro attuali, salderà gli avvocati e, tornato benestante, si godrà i suoi due ultimi anni della sua esistenza. Una vita davvero spericolata, fino alla fine.