Da oggi, tutti i giorni, pubblichiamo a puntate «Dei delitti e delle pene», il capolavoro di Cesare Beccaria che cambiò la storia del diritto occidentale.

Cesare Bonesana Beccaria, Marchese di Gualdrasco e di Villareggio, nasce al centro di Milano, in via Brera, il 15 marzo 1738.

Suddito quindi dell’impero asburgico, studia dai gesuiti e si laurea a vent’anni a Pavia in Giurisprudenza e, pur di sposare Teresa Blasco, rompe con la famiglia.

Il celebre pamphlet di cui Beccaria è autore – Dei delitti e delle pene - che si presenta qui, rappresenta probabilmente il frutto più maturo di quell’illuminismo giuridico e sociale lombardo che si era raccolto attorno alla Accademia dei Pugni e alla celebre rivista Il Caffè.

Accademia e rivista che ebbero vita breve di qualche anno appena, ma che comunque riuscirono a segnare in modo incisivo uno snodo fondamentale della cultura giuridica e politica europea della metà del settecento, quello che non a caso è stato definito da molti e attenti studiosi il secolo riformatore.

Il celebre libello va letto e inquadrato dunque all’interno di questa cornice culturale che trasse il suo primo alimento dall’illuminismo francese, anche se bisogna sempre rifuggire dagli schematismi eccessivi e pervasivi: per esempio, come è noto, l’illuminismo europeo non fu certo soltanto di matrice francese ( basti pensare a Kant, il quale peraltro nella Metafisica dei Costumi criticò aspramente Beccaria), come, del resto, il romanticismo non fu soltanto tedesco ( basti pensare a Rostand).

Rimane il fatto comunque che Beccaria era affascinato da Rousseau, da d’Alembert, da d’Holbach, da Diderot, al punto da mostrare nei confronti di codesti esponenti della filosofia dei lumi una sorta di timore reverenziale che si trasformò poi – quando divenuto celebre si recò a Parigi con Alessandro e Pietro Verri, da loro medesimi invitato – in una strana nevrosi, ragion per cui repentinamente fece ritorno a Milano. E tanto immotivatamente, da suscitare lo sconcerto dei suoi illustri ospiti oltre che il malumore dei Verri, i quali evidentemente immaginavano per l’illustre amico ben altri trionfi nei salotti parigini che invece non ci furono mai.

Eppure, di quei trionfi ci sarebbe stata ragione in quanto la riflessione di Beccaria, pubblicata all’inizio del 1764, inaugura una nuova pagina nel diritto penale europeo: quella del con- trattualismo di matrice utilitaristica che fa da argine al potere assoluto del monarca.

In qualche modo rivoluzionario e pericoloso per il potere asburgico dunque il libro di Beccaria, tanto che la censura se ne accorse e ne arginò in parte gli effetti ( sottovalutandoli), vietandone la pubblica vendita tranne che “per la gente dotata di giudizio”: una sorta di censura di seconda categoria, quasi inutile in punto di fatto.

Si è detto contrattualismo: ed infatti la visione di Beccaria si inserisce nel solco di quelle correnti culturali ( si pensi a Rousseau o a Bentham) che vedono nello Stato il risultato di un contratto sociale, stipulato fra i sudditi che cedono al Sovrano pezzi della loro libertà in cambio della sicurezza interna ed esterna.

In quanto tale, il contrattualismo si oppone all’organicismo, visione tradizionale della filosofia politica, in virtù della quale lo Stato possiede una sua autonoma fisionomia che va come tale conosciuta e riconosciuta: esso è appunto organico. E si è detto anche utilitarismo, per significare che i patti che da quel contratto scaturiscono sono razionali, in quanto utili sia ai singoli, sia alla collettività ed al monarca stesso, ben più di quanto possa esserlo il potere dispoticamente esercitato dal Sovrano assoluto.

Insomma, la Sovranità, per essere utile, deve essere razionale e per essere razionale deve nascere da un patto fra sudditi e Sovrano, un patto chiaro e da tutti comprensibile e soprattutto da tutti accettabile.

Da qui, ovviamente, la necessaria moderazione delle pene e la contrarietà alla pena di morte, in quanto le pene estreme sono non utili perché irrazionali.

Idee, come si vede, per noi ben note, anche se oggi da riscoprire perché poco praticate; e questo rende addirittura necessaria la pubblicazione di Beccaria alla quale ci si accinge.

Idee nuovissime a quel tempo, tanto che Caterina II di Russia gli offrì la presidenza di una commissione per la riforma del codice penale largamente ispirata al suo pensiero, che però egli – come sempre incerto e restio ad assumere ruoli di primo piano – finì col rifiutare.

Beccaria finì i suoi giorni in modo quasi oscuro, nominato burocrate presso il Supremo Consiglio di Economia.

Le sue pagine invece gli sopravvissero e intrisero molte delle riforme europee del codice penale e di procedura penale, benchè pesantemente osteggiate da alcuni ecclesiastici: Padre Ferdinando Facchinei si scagliò contro violentemente, ma Padre Frisi le apprezzava e diffondeva.

Oggi tuttavia vanno ricordate a coloro che sembrano averle dimenticate. E non sono pochi.

DEI DELITTI E DELLE PENE

A CHI LEGGE

Alcuni avanzi di leggi di un antico popolo conquistatore fatte compilare da un principe che dodici secoli fa regnava in Costantinopoli, frammischiate poscia co’ riti longobardi, ed involte in farraginosi volumi di privati ed oscuri interpreti, formano quella tradizione di opinioni che da una gran parte dell’Europa ha tuttavia il nome di leggi; ed è cosa funesta quanto comune al dì d’oggi che una opinione di Carpzovio, un uso antico accennato da Claro, un tormento con iraconda compiacenza suggerito da Farinaccio sieno le leggi a cui con sicurezza obbediscono coloro che tremando dovrebbono reggere le vite e le fortune degli uomini. Queste leggi, che sono uno scolo de’ secoli i piú barbari, sono esaminate in questo libro per quella parte che risguarda il sistema criminale, e i disordini di quelle si osa esporli a’ direttori della pubblica felicità con uno stile che allontana il volgo non illuminato ed impaziente. Quella ingenua indagazione della verità, quella indipendenza delle opinioni volgari con cui è scritta quest’opera è un effetto del dolce e illuminato governo sotto cui vive l’autore. I grandi monarchi, i benefattori della umanità che ci reggono, amano le verità esposte dall’oscuro filosofo con un non fanatico vigore, detestato solamente da chi si avventa alla forza o alla industria, respinto dalla ragione; e i disordini presenti da chi ben n’esamina tutte le circostanze sono la satira e il rimprovero delle passate età, non già di questo secolo e de’ suoi legislatori.

Chiunque volesse onorarmi delle sue critiche cominci dunque dal ben comprendere lo scopo a cui è diretta quest’opera, scopo che ben lontano di diminuire la legittima autorità, servirebbe ad accrescerla se piú che la forza può negli uomini la opinione, e se la dolcezza e l’umanità la giustificano agli occhi di tutti. Le mal intese critiche pubblicate contro questo libro si fondano su confuse nozioni, e mi obbligano d’interrompere per un momento i miei ragionamenti agl’illuminati lettori, per chiudere una volta per sempre ogni adito agli errori di un timido zelo o alle calunnie della maligna invidia.

Tre sono le sorgenti delle quali derivano i principii morali e politici regolatori degli uomini.

La rivelazione, la legge naturale, le convenzioni fattizie della società. Non vi è paragone tra la prima e le altre per rapporto al principale di lei fine; ma si assomigliano in questo, che conducono tutte tre alla felicità di questa vita mortale. Il considerare i rapporti dell’ultima non è l’escludere i rapporti delle due prime; anzi siccome quelle, benché divine ed immutabili, furono per colpa degli uomini dalle false religioni e dalle arbitrarie nozioni di vizio e di virtú in mille modi nelle depravate menti loro alterate, cosí sembra necessario di esaminare separatamente da ogni altra considerazione ciò che nasca dalle pure convenzioni umane, o espresse, o supposte per la necessità ed utilità comune, idea in cui ogni setta ed ogni sistema di morale deve necessariamente convenire; e sarà sempre lodevole intrappresa quella che sforza anche i piú pervicaci ed increduli a conformarsi ai principii che spingon gli uomini a vivere in società. Sonovi dunque tre distinte classi di virtú e di vizio, religiosa, naturale e politica. Queste tre classi non devono mai essere in contradizione fra di loro, ma non tutte le conseguenze e i doveri che risultano dall’una risultano dalle altre. Non tutto ciò che esige la rivelazione lo esige la legge naturale, né tutto ciò che esige questa lo esige la pura legge sociale: ma egli è importantissimo di separare ciò che risulta da questa convenzione, cioè dagli espressi o taciti patti degli uomini, perché tale è il limite di quella forza che può legittimamente esercitarsi tra uomo e uomo senza una speciale missione dell’Essere supremo. Dunque l’idea della virtú politica può senza taccia chiamarsi variabile; quella della virtú naturale sarebbe sempre limpida e manifesta se l’imbecillità o le passioni degli uomini non la oscurassero; quella della virtú religiosa è sempre una costante, perché rivelata immediatamente da Dio e da lui conservata.

Sarebbe dunque un errore l’attribuire a chi parla di convenzioni sociali e delle conseguenze di esse principii contrari o alla legge naturale o alla rivelazione; perché non parla di queste. Sarebbe un errore a chi, parlando di stato di guerra prima dello stato di società, lo prendesse nel senso hobbesiano, cioè di nessun dovere e di nessuna obbligazione anteriore, in vece di prenderlo per un fatto nato dalla corruzione della natura umana e dalla mancanza di una sanzione espressa. Sarebbe un errore l’imputare a delitto ad uno scrittore, che considera le emanazioni del patto sociale, di non ammetterle prima del patto istesso. La giustizia divina e la giustizia naturale sono per essenza loro immutabili e costanti, perché la relazione fra due medesimi oggetti è sempre la medesima; ma la giustizia umana, o sia politica, non essendo che una relazione fra l’azione e lo stato vario della società, può variare a misura che diventa necessaria o utile alla società quell’azione, né ben si discerne se non da chi analizzi i complicati e mutabilissimi rapporti delle civili combinazioni. Sí tosto che questi principii essenzialmente distinti vengano confusi, non v’è piú speranza di ragionar bene nelle materie pubbliche. Spetta a’ teologi lo stabilire i confini del giusto e dell’ingiusto, per ciò che riguarda l’intrinseca malizia o bontà dell’atto; lo stabilire i rapporti del giusto e dell’ingiusto politico, cioè dell’utile o del danno della società, spetta al pubblicista; né un oggetto può mai pregiudicare all’altro, poiché ognun vede quanto la virtú puramente politica debba cedere alla immutabile virtú emanata da Dio.

Chiunque, lo ripeto, volesse onorarmi delle sue critiche, non cominci dunque dal supporre in me principii distruttori o della virtú o della religione, mentre ho dimostrato tali non essere i miei principii, e in vece di farmi incredulo o sedizioso procuri di ritrovarmi cattivo logico o inavveduto politico; non tremi ad ogni proposizione che sostenga gl’interessi dell’umanità; mi convinca o della inutilità o del danno politico che nascer ne potrebbe dai miei principii, mi faccia vedere il vantaggio delle pratiche ricevute. Ho dato un pubblico testimonio della mia religione e della sommissione al mio sovrano colla risposta alle Note ed osservazioni; il rispondere ad ulteriori scritti simili a quelle sarebbe superfluo; ma chiunque scriverà con quella decenza che si conviene a uomini onesti e con quei lumi che mi dispensino dal provare i primi principii, di qualunque carattere essi siano, troverà in me non tanto un uomo che cerca di rispondere quanto un pacifico amatore della verità.

INTRODUZIONE

Gli uomini lasciano per lo piú in abbandono i piú importanti regolamenti alla giornaliera prudenza o alla discrezione di quelli, l’interesse de’ quali è di opporsi alle piú provide leggi che per natura rendono universali i vantaggi e resistono a quello sforzo per cui tendono a condensarsi in pochi, riponendo da una parte il colmo della potenza e della felicità e dall’altra tutta la debolezza e la miseria. Perciò se non dopo esser passati framezzo mille errori nelle cose piú essenziali alla vita ed alla libertà, dopo una stanchezza di soffrire i mali, giunti all’estremo, non s’inducono a rimediare ai disordini che gli opprimono, e a riconoscere le piú palpabili verità, le quali appunto sfuggono per la semplicità loro alle menti volgari, non avvezze ad analizzare gli oggetti, ma a riceverne le impressioni tutte di un pezzo, piú per tradizione che per esame.

Apriamo le istorie e vedremo che le leggi, che pur sono o dovrebbon esser patti di uomini liberi, non sono state per lo piú che lo stromento delle passioni di alcuni pochi, o nate da una fortuita e passeggiera necessità; non già dettate da un freddo esaminatore della natura umana, che in un sol punto concentrasse le azioni di una moltitudine di uomini, e le considerasse in questo punto di vista: la massima felicità divisa nel maggior numero. Felici sono quelle pochissime nazioni, che non aspettarono che il lento moto delle combinazioni e vicissitudini umane facesse succedere all’estremità de’ mali un avviamento al bene, ma ne accelerarono i passaggi intermedi con buone leggi; e merita la gratitudine degli uomini quel filosofo ch’ebbe il coraggio dall’oscuro e disprezzato suo gabinetto di gettare nella moltitudine i primi semi lungamente infruttuosi delle utili verità.

Si sono conosciute le vere relazioni fra il sovrano e i sudditi, e fralle diverse nazioni; il commercio si è animato all’aspetto delle verità filosofiche rese comuni colla stampa, e si è accesa fralle nazioni una tacita guerra d’industria la piú umana e la piú degna di uomini ragionevoli. Questi sono frutti che si debbono alla luce di questo secolo, ma pochissimi hanno esaminata e combattuta la crudeltà delle pene e l’irregolarità delle procedure criminali, parte di legislazione cosí principale e cosí trascurata in quasi tutta l’Europa, pochissimi, rimontando ai principii generali, annientarono gli errori accumulati di piú secoli, frenando almeno, con quella sola forza che hanno le verità conosciute, il troppo libero corso della mal diretta potenza, che ha dato fin ora un lungo ed autorizzato esempio di fredda atrocità. E pure i gemiti dei deboli, sacrificati alla crudele ignoranza ed alla ricca indolenza, i barbari tormenti con prodiga e inutile severità moltiplicati per delitti o non provati o chimerici, la squallidezza e gli orrori d’una prigione, aumentati dal piú crudele carnefice dei miseri, l’incertezza, doveano scuotere quella sorta di magistrati che guidano le opinioni delle menti umane.

L’immortale Presidente di Montesquieu ha rapidamente scorso su di questa materia.

L’indivisibile verità mi ha forzato a seguire le tracce luminose di questo grand’uomo, ma gli uomini pensatori, pe’ quali scrivo, sapranno distinguere i miei passi dai suoi. Me fortunato, se potrò ottenere, com’esso, i segreti ringraziamenti degli oscuri e pacifici seguaci della ragione, e se potrò inspirare quel dolce fremito con cui le anime sensibili rispondono a chi sostiene gl’interessi della umanità!

1- CONTINUA